Nel convegno annuale di Caritas Ambrosiana, svoltosi alla presenza dell’Arcivescovo con la partecipazione di oltre 700 tra operatori e volontari, si è affrontato e approfondito il tema della speranza. Non un vago ottimismo, frutto di calcoli umani, ma dono che viene dalla relazione con i Signore
di Annamaria
BRACCINI
La speranza rubata, censurata, ridotta a un’aspettativa figlia delle probabilità, condannata oggi a un’irrilevanza senza futuro. E, al contrario, la speranza che è compimento della persona, sguardo che sa andare al di là dell’orizzonte temporale di piccolo respiro, aprendosi all’eternità. In una parola, la speranza cristiana.
Sono tante le declinazioni e i significati dello sperare che risuonano tra gli oltre 700 operatori e volontari di Caritas Ambrosiana riuniti, nel Salone Pio XII del Centro Pastorale di via Sant’Antonio a Milano, per il tradizionale Convegno “della Vigilia”, promosso nel giorno precedente alla Giornata Diocesana, appunto di Caritas, che quest’anno coincide con la Prima Giornata Mondiale dei Poveri, voluta dal santo Padre nella Solennità liturgica di Cristo Re dell’Universo, e quindi, celebrata in Diocesi, secondo il Rito Ambrosiano, con due settimane di anticipo rispetto al Rito Romano.
Il titolo del Convegno, che si svolge alla presenza dell’Arcivescovo, “Non lasciamoci rubare la speranza” – con le ultime parole del paragrafo 86 dell’Esortazione apostolica “Evangelii Gaudium” di papa Francesco – delinea il proseguire su un percorso di riflessione, intorno al nesso tra carità e cultura, che da tempo Caritas propone. «Vogliamo cogliere una delle provocazioni che ci hanno colpito, soprattutto alla luce della risposta all’invito venuto dal Papa per l’accoglienza diffusa. Ci siamo chiesti come le nostre comunità risentissero dei flussi migratori, talvolta anch’esse spaventate da rappresentazioni distorte e da espressioni come “invasione” e “islamizzazione della società italiana”. Davanti a un tale scenario abbiamo deciso di ragionare su ciò che sta succedendo, in positivo, appunto per non lasciarci rubare la speranza», spiega, aprendo i Lavori, Luciano Gualzetti, direttore di Caritas Ambrosiana. Accanto a lui – oltre a monsignor Delpini – ci sono il presidente di Caritas e vicario episcopale di Settore, monsignor Luca Bressan (che, a conclusione, celebra il Mandato), il vicedirettore don Massimiliano Sabbadini, don Angelo Casati e Sandro Calvani, attualmente consigliere presso la “Mae Fah Luang Foundation” di Bangkok, arrivato per l’occasione dalla Thailandia, molto noto per aver più volte richiamato la necessità della costruzione di un nuovo umanesimo a livello internazionale.
La riflessione dell’Arcivescovo
È l’Arcivescovo a delineare subito la differenza tra una speranza tutta umana e un autentico modo di viverla in virtù della relazione con il Signore. «Sembra che oggi la speranza cristiana sia irrilevante. La promessa della vita eterna, la prospettiva di compimento, poiché ha a che fare con la morte, è censurata, come fosse una parola imbarazzante. La reazione è simile a quella che coprì di ridicolo san Paolo dopo il discorso tenuto agli ateniesi sulla Risurrezione».
La speranza diviene così aspettativa, programmazione di qualcosa di bene che può accaderci «dopo aver fatto un calcolo, che non si spinge mai troppo lontano, delle risorse disponibili e delle sinergie augurabili. Una speranza che si avvale di statistiche e che, tuttavia, è fragile perché costruita su un essere fragile come è l’uomo». Non a caso, il più delle volte si sperimentano delusioni e fallimenti.
Vi è poi l’“altra” speranza, «che non si riferisce a un mero orizzonte temporale, ma si dischiude al compimento escatologico; non è una “pacca sulla spalla”, una consolazione, “oppio dei popoli”; non è frutto della programmazione, ma della relazione con il Signore; non evasione consolatrice, ma risposta alla promessa di un Dio vicino agli uomini» e lontanissimo dalla vaga astrazione a cui essi lo hanno ridotto.
Insomma, non una speranza «trascinata dalla moda dell’ottimismo», ma che nasce, con il sigillo dello Spirito, da una chiamata. «È il Signore che chiama con la voce dei poveri e della Chiesa».
Da qui l’esortazione a non farsi trascinare, di fronte ai bisogni, dalla tipica seppure meritoria, operosità delle nostre terre – facile preda di frustrazioni e stanchezze –, e a non limitarsi a reazioni emotive, lasciandosi, invece, ispirare dalla compassione stessa di Dio.
Con l’immagine delle cinque vergini sagge, la conclusione dell’Arcivescovo definisce altrettante virtù che circondano la speranza cristiana: la fiducia libera dall’esito; il timor di Dio «che implica il senso di responsabilità riguardo a cosa facciamo della nostra vita»; la preghiera «che non è scaramanzia, ma ciò di cui abbiamo bisogno per mantenere vivo il roveto ardente della fede»; la libertà come sublime adempimento di una persona che, «appunto libera dalla paura della morte, non ha timore di dire parole scomode o pericolose»; la gioia «sorella della speranza, che ha le sue radici nella comunione con Dio».
Solo così “le paure che ci abitano”, per usare il titolo dell’intervento di don Casati, non vincono e la speranza potrà non essere mai più rubata a nessuno.