Il vescovo di Batroun è uno dei premiati dall’Arcidiocesi e da Elikya per il suo impegno per «cambiare il mondo»: «Siamo un mosaico di comunità diverse, ma sappiamo di essere figli dell’unico Dio»
di Annamaria
BRACCINI
«Con il fuoco dentro». Non si poteva, forse, scegliere titolo più adatto per il premio (leggi qui) che, nella sua prima edizione, verrà conferito, tra gli altri, a monsignor Mounir Khairallah, vescovo della Diocesi di Batroun, a nord di Beirut, in Libano. Una terra di conflitti, ma anche di iniziative di pace e riconciliazione, che hanno visto l’impegno fattivo e continuo proprio di monsignor Khairallah. Classe 1953, laureato presso la Pontificia università Urbaniana, con un master in Teologia alla Sorbona, il vescovo libanese conosce molto bene Milano, venendo nella nostra città fin dal 1975. Con lui, in collegamento dalla sua Diocesi, abbiamo parlato del riconoscimento.
Monsignore, lei viene premiato anche per il suo impegno per il dialogo interreligioso e a favore della pace. Cosa sente di dire in questo momento?
Per prima cosa, vorrei ringraziare, con sentimenti di vera e profonda riconoscenza, l’Arcivescovo, monsignor Delpini – un fratello e grande amico -, e ringraziare tutta l’équipe di Elikya. Sono contento e onorato per questo premio. Suppongo che i promotori abbiano preso in considerazione non solo l’attività o il ministero che svolgo come prete e vescovo, ma anche la mia testimonianza quale artefice di pace in un Paese in guerra da ormai 48 anni. Penso che questo riconoscimento sia molto importante per me, ma soprattutto per la mia Chiesa in Libano e per una terra ferita dalla guerra come il Libano stesso. La speranza che abbiamo tutti come libanesi – cristiani o musulmani -, è di ricostruire la nostra nazione che è stata chiamata dal santo papa Giovanni Paolo II un «Paese-messaggio», proprio per i valori che tutti noi libanesi abbiamo rappresentato e continuiamo a rappresentare. Il Libano è un messaggio di libertà, di convivialità delle differenze, del vivere insieme nonostante tutte le difficoltà e le guerre.
Qual è la situazione nel Paese, considerando anche il gran numero di rifugiati siriani?
La situazione per i libanesi è molto critica e complessa, oserei direi catastrofica in un certo senso. Anzitutto perché lo Stato, con le sue istituzioni, è completamente crollato, affondato dalla crisi economica, monetaria, sociale. Tutti i libanesi, in questi tempi, stanno portando il peso dell’assenza totale dello Stato. In queste condizioni, l’impegno privato dei cittadini è importantissimo, così come la solidarietà familiare, diffusa e tradizionale tra i libanesi, è ciò che aiuta a resistere e a perseverare nella nostra fede con la speranza di un domani migliore. La situazione è, poi, resa più difficile dalla presenza dei rifugiati – i palestinesi qui da moltissimi anni, ma ultimamente soprattutto dai siriani, il cui numero tocca ormai i 2 milioni di persone in un Paese che conta oggi 4,5 milioni di abitanti. È ovvio che una popolazione con quasi il 50% di profughi, comporti ulteriori difficoltà per la conduzione della vita sociale e quotidiana.
In questo momento come si configura il ruolo della Chiesa e suo personale?
Naturalmente abbiamo aperto le nostre case, le nostre scuole, i nostri istituti ai rifugiati siriani, ma ci occupiamo adesso molto anche delle nostre famiglie, dei cittadini, che versano in una situazione veramente di miseria. Come Chiesa e come società civile, cerchiamo di far prendere coscienza alla Comunità internazionale che i libanesi stessi hanno diritto a essere sostenuti nel recuperare il diritto di vivere con dignità umana e nella libertà. Il Libano era chiamato un tempo la «Svizzera d’Oriente»; oggi è agli ultimi posti a livello internazionale. Chiediamo, quindi, di aiutarci a ripristinare i nostri diritti, la nostra sovranità, la nostra indipendenza in quanto Paese libero. Le organizzazioni internazionali dovrebbero trovare una soluzione anche per un ritorno sicuro dei rifugiati nei loro Paesi, soprattutto per i nostri vicini siriani che hanno, a loro volta, diritto a tornare nella loro terra, a ricostruire le case, le scuole, una vita normale. Finora, bisogna però dire la comunità internazionale non ci ha aiutato in questo senso. Nonostante tutto questo, noi non ci rifiutiamo di ospitare i nostri fratelli della Siria e vogliamo accoglierli.
Lei conosce bene Milano. Che ricordo ha della Chiesa ambrosiana?
Porto la Chiesa ambrosiana nel mio cuore e nelle mie preghiere, con il suo Arcivescovo, il clero, le religiose, i religiosi, le parrocchie e tutto il vostro popolo. Sono molto riconoscente perché i milanesi mi sono vicini da quasi 50 anni e mi stanno accompagnando con la loro preghiera, l’amicizia e la solidarietà. Grazie anche a quest’amicizia, all’incoraggiamento, ai legami religiosi, culturali, civili che abbiamo, noi non demordiamo dall’impegno e, anzi, perseveriamo.
Come si sta sviluppando il dialogo interreligioso in una terra, come il Libano, che è un crogiuolo di religioni: cristiana, musulmana e anche ebraica?
Il Libano è sempre stato un mosaico composto di ben 18 comunità diverse, che vivevano, vivono e vivranno insieme nel rispetto delle loro diversità, sapendo che apparteniamo alla stessa nazione e che siamo tutti figli dell’unico Dio. Il Dio di Abramo, che per noi è il Padre di Gesù Cristo, morto sulla croce e risorto per ognuno dei nostri fratelli. Siamo figli di un Dio di misericordia, di bontà e di pace e non lo vogliamo dimenticarlo: per questo sono sicuro che il Libano risorgerà e ritornerà un Paese-messaggio anche nel senso della convivialità delle fedi.