Il responsabile del Settore internazionale di Caritas Ambrosiana descrive la realtà nella quale si recherà il cardinale Scola e parla dei progetti e degli interventi in corso da tempo a favore dei rifugiati: «C’è più di una guerra in corso»
di Luisa BOVE
«Quella in Iraq è una situazione molto complessa, difficile e senza controllo». Non usa mezzi termini Alberto Minoia, responsabile del Settore internazionale di Caritas ambrosiana per i progetti in Medio Oriente, per descrivere il contesto in cui nei prossimi giorni si recherà in visita il cardinale Angelo Scola. «In Libano e in Iraq l’Arcivescovo incontrerà Vescovi e Patriarchi, e attraverso la Caritas, che ha iniziato a raccogliere fondi, consegnerà la somma in segno di solidarietà e vicinanza alla Chiesa». Questi aiuti saranno utilizzati per finanziare progetti e interventi d’emergenza individuati da Caritas Iraq a favore delle famiglie cristiane.
La situazione è esplosiva, continua Minoia, «perché c’è più di una guerra in corso, per esempio nella zona del Kurdistan iracheno, da Mosul alla piana di Ninive, piuttosto che al confine con la Turchia (sempre controllata da forze curde e dall’Isis) e la Siria». È come un unico conflitto su più fronti, cui si aggiungono scontri tra tribù per il controllo del territorio: «Nessuno oggi è in grado di delineare il futuro di questa terra. Tra Siria e Iraq è un continuum di violenze e guerre». C’è chi pensa che con i bombardamenti dall’alto si possa combattere l’Isis; in realtà i maggiori conflitti sono su terra: «Arrivano armi dappertutto e questo crea un mercato molto fiorente, ma come al solito chi ci va di mezzo è la popolazione civile».
Al momento quali sono le realtà impegnate sul territorio?
Noi collaboriamo con Caritas italiana, Caritas Iraq e Caritas Libano. Poi lavoriamo in rete anche con altre organizzazioni, come Focsiv, Ong e Agenzia delle Nazioni unite, anche perché i numeri sono folli. Se Mosul viene invasa, colpita o conquistata, in pochissime ore decine e decine di migliaia di persone scappano, raggiungono Erbil o zone limitrofe, creando un forte impatto. L’intervento umanitario di emergenza quindi non è facile su un territorio difficile. Abbiamo attività a Baghdad e a Erbil, ma anche in città più piccole, sempre nella zona del Kurdistan.
Perché è così difficile aiutare le popolazioni?
Perché nella prima fase della fuga le persone scappano come possono e quando arrivano in un luogo parzialmente sicuro, difficilmente trovano strutture già predisposte. Così, come è capitato a Erbil, si aprono chiese, conventi, cortili, e dove non è possibile si montano tendopoli che poi diventano campi. Chi non ha un luogo dove andare si ferma, il resto si dirige in altre città della regione. I cristiani, in particolare, se hanno mezzi economici sufficienti, cercano di raggiungere i parenti o altre comunità di iracheni. Nei campi rimangono invece le fasce più povere e in difficoltà.
In concreto la Caritas cosa fa?
In Libano siamo presenti con progetti di assistenza e da qualche anno nei Paesi vicini (Siria, Giordania e Iraq) stiamo aiutando i rifugiati siriani, anche cristiani, che hanno iniziato a scappare in forma massiccia. Si tratta di aiuti sempre legati all’emergenza: distribuzione di cibo e kit igienico-sanitari, ma paghiamo anche spese di affitto per permettere una vita dignitosa, favorire l’istruzione e l’integrazione dei bambini. In Libano stiamo lavorando affinché i piccoli siriani possano accedere alle scuole primarie pubbliche: diventa fondamentale aiutare le nuove generazioni a studiare e a giocare, di modo che bambini già privati della loro infanzia possono recuperare e avere un futuro. In Siria si parla già di una generazione a rischio culturale perché i ragazzi, a causa della guerra, non vanno più a scuola da anni e a volte non trovano accoglienza neppure nelle strutture pubbliche dei Paesi vicini.
I continui conflitti non favoriscono la ripresa…
Infatti. La situazione non è affatto tranquilla e il fronte in questo momento non è stabile: non è detto, infatti, che le zone non ancora colpite resteranno sicure, come è stato in Siria per Aleppo e Palmira. È chiaro che c’è un’evoluzione che dipende proprio dal conflitto. Per questo è difficile immaginare se e quando le popolazioni potranno rientrare e in quali condizioni. Ora non si riesce neppure a trovare un luogo di confronto tra le parti per lavorare anche solo sull’aspetto di corridoi e aiuti umanitari, figuriamoci sul fronte politico…
E nessuno fa nulla?
La comunità internazionale, i politici, tutti devono prendere atto che non esiste più quel Medio Oriente disegnato e cristallizzato dai vari accordi tra Stati dopo la prima guerra mondiale. Di fatto l’Iraq non esiste più come entità statuale come la conoscevamo, perché grandi porzioni del territorio sono occupate. Così pure in Siria. Anche in altri Paesi mediorientali ci sono enormi difficoltà per la guerra, gli aspetti economici, politici e per la presenza di rifugiati siriani: pensiamo in questo momento alla Giordania e al Libano. Eppure la comunità internazionale fa di tutto per non prendere decisioni sul Medio Oriente.