Nella parrocchia di San Protaso l’Arcivescovo ha presieduto la Veglia dal titolo “Vite intrecciate”. Testimonianza di una comboniana che ha vissuto la recente guerra in Sud Sudan
di Annamaria Braccini
«In questa celebrazione facciamo memoria dei martiri missionari, uomini e donne che hanno vissuto una vita normale, con gioie e dolori, fatiche e speranze e che sono caduti mentre svolgevano il loro servizio missionario. Il missionario martire è tessitore di fraternità: la sua vita si intreccia con quella dei popoli e delle culture che serve e incontra».
“Vite intrecciate” è il tema scelto quest’anno da Missio Giovani (articolazione della Fondazione Missio) e quindi il titolo della Veglia che, nella parrocchia di San Protaso, l’Arcivescovo presiede nella 29ma Giornata di preghiera e digiuno in memoria dei Missionari Martiri. Giornata che cade in una data scelta non a caso, perché il 24 marzo 1980 Oscar Arnulfo Romero, arcivescovo metropolita di San Salvador, veniva barbaramente trucidato mentre celebrava Messa, e il 24 marzo ricorre anche la memoria liturgica dell’oggi san Romero.
Dunque, vite intrecciate fatte di incontri, di iniziative, di esistenze generose che si sono intrecciate anche con quelle di chi li ha uccisi, ma vite intrecciate sempre e soprattutto con Cristo e il Vangelo, come quelle dei 2 martiri del 2020 in Italia, don Roberto Malgesini – sacerdote della diocesi di Como, trafitto il 15 settembre 2020 alle 8 da Ridah, uno dei suoi assistiti, mentre si preparava a caricare l’auto con le colazioni del giorno -, e fratel Leonardo Grasso che, il 5 dicembre scorso, ha perso la vita a causa di un furto e incendio doloso appiccato alla sede della “Tenda di San Camillo”, una comunità di recupero per tossicodipendenti da lui diretta a Catania. Responsabile in quel caso, un ospite della struttura. Insieme ai due italiani la memoria è anche per altri 7 sacerdoti, 3 religiose, 4 laici, 2 seminaristi e due sorelline di 10 e 12 anni della Pontificia Opera dell’Infanzia e Adolescenza Missionaria, uccise in Nicaragua.
Così, nella Veglia promossa per la città di Milano e organizzata dal Decanato San Siro Vercellina Sempione, con il Pime e l’Ufficio Missionario della Diocesi (altre se ne svolgono nelle altre Zone pastorali), l’Arcivescovo – cui sono accanto in altare il vicario episcopale per la Zona I monsignor Carlo Azzimonti e padre Piero Masolo del Pime – sottolinea subito che la «celebrazione del martirio è l’atto di fede più alto in assoluto».
L’omelia dell’Arcivescovo
«L’omelia che interpreta la parola di Gesù è già stata proposta dal martirologio: l’elenco troppo lungo e troppo doloroso di tante persone morte per la fede in Gesù e per la decisione di restare là dove praticare la fede espone a minaccia mortale è un commento sufficiente», aggiunge l’Arcivescovo, dopo aver ascoltato con i fedeli – coloro che, con ogni cautela, necessaria sono presenti in chiesa e i tanti collegati via tv e streaming – la lettura dell’elenco dei nomi dei martiri mentre viene portato sotto la croce ai piedi sull’altare, per ciascuno, un piccolo lumino acceso.
«Il giusto ingiustamente ucciso versa il suo sangue che continua a essere voce che grida a Dio e chiede giustizia. I rumori del mondo, delle armi, delle parole cattive vorrebbero coprire la voce del giusto ingiustamente ucciso. L’insolenza e il disprezzo del persecutore cerca di confondere la voce del giusto, chiamando bene il male e male il bene. La banalità dei pensieri, la meschinità dei desideri passano oltre il martirio come fosse un titolo di cronaca, passano oltre, al prossimo titolo, alla prossima chiacchiera».
È la voce di chi non ha più voce e «dove le parole possono essere distrazione, noi ci inoltriamo nel silenzio. Dove segni e canti possono distogliere dal mistero con le emozioni che suscitano, noi cerchiamo momenti di silenzio. Dove le opere e le immagini possono ingombrare il pensare, il fantasticare, il curiosare, noi ci appartiamo in un momento nel silenzio». Un silenzio nel quale il Figlio rivela il Padre. «I martiri, come scintille nella stoppia, consentono a chi contempla in silenzio di vedere la gloria di Dio nel dramma incomprensibile alla sapienza del mondo: come può essere gloriosa la morte? Il Figlio rivela il Padre: nel morire c’è l’abbraccio, nella sconfitta dei giusti si rivela l’impotenza del persecutore che mentre fa perire il corpo non può impadronirsi dell’anima che è nelle mani di Dio, nel finire abita l’inizio o piuttosto il compimento. Solo il Figlio può rivelare il Padre che compie la sua opera. Solo chi si pone in silenzio di fronte al Figlio può ricevere lo Spirito ed entra nella comunione che salva».
Anche se le lacrime, così umane, non possono che rigare i volti di ognuno. «Le nostre lacrime dicono che partecipiamo alla tragedia dei giusti ingiustamente uccisi come gente che ha un cuore di carne e non un cuore di pietra. L’ingiusto soffrire dei martiri è un racconto che ci vuole scuotere dalla tiepidezza di una fede stanca, di una vita cristiana assestata nella mediocrità. L’ingiusto soffrire non vuole solo proteste, non si accontenta di analisi che spieghino il perché e cerchino i colpevoli. L’ingiusto soffrire chiede le lacrime, le lacrime del pentimento, della conversione. Ne viene una sorta di fraternità delle lacrime».
Di fronte a un senso di impotenza che tutti proviamo, esistono però anche il sorriso e il canto, e, allora, monsignor Delpini, conclude: «Ti benedico perché l’enigma inquietante dell’ingiusto soffrire del giusto si è rivelato essere partecipazione alla missione di Gesù di entrare nella morte per vincerla. Ti benedico, Padre, perché i miti, gli umili, i piccoli non finiscono nel disprezzo dei prepotenti, non sono gli sconfitti della storia, ma sono quelli che imparano da Gesù che è mite e umile di cuore e trovano ristoro per le loro anime».
La testimonianza
Parole che sono come una risposta alla testimonianza portata, via video, da suor Laura Perin, missionaria comboniana che ha vissuto, dal 2008 al 2014, in Sud Sudan, anche durante la recente guerra. «Sono stata inviata per vivere e collaborare con le donne di cui ricordo l’accoglienza come fossimo parte di una sola famiglia. Il popolo sud-sudanese ha resistenza e fede. Dio è dappertutto: è una cosa che ho imparato e mi sta sempre del cuore nonostante le guerre. Nel 2013 è scoppiato il conflitto, ma noi, come missionari e missionari, abbiamo pensato di rimanere – racconta -. Il conflitto tra il gruppo chiamato dei ribelli e l’esercito governativo si avvicinava sempre di più è così ci siamo anche noi trasferiti con la gente e questo ha voluto dire fidarsi. Il Signore ha voluto che il primo giorno siamo stati attaccati. Ho vissuto come la Provvidenza di Dio si faccia presente. Un dono grande è stato avere con noi i confratelli che hanno potuto celebrare Messa: tanta gente via via, specie le donne con bambini, si sono avvicinate a noi e ci hanno aiutato in tutto e per tutto, portando acqua e cibo». Poi, il ritorno nella Missione, completamente distrutta.
Infine, dopo aver portato tante sciarpe multicolori, a delineare il senso di un impegno contro la violenza che non dimentica nessuno e nessuna parte del mondo, la raccolta – all’uscita della parrocchia e ricordata a chi segue da casa – della colletta, le cui offerte vengono devolute a progetti per il lavoro giovanile in Albania; al sostegno per mamme e bimbi birmani esuli in Thailandia e per contribuire alla ricostruzione in Sud Sudan. «Chiediamo la benedizione di essere missionari. Siete benedetti da Dio e siate benedizione per chi incontrate», conclude l’Arcivescovo.