Presso l’Abbazia è stato presentato il volume «Schuster, il vescovo della Ricostruzione» di Marco Garzonio, alla presenza dell’Arcivescovo e dell’autore
di Annamaria
Braccini
«Ero uscito di buon’ora, con una meta insolita per me: piazza del Duomo. Sì, volevo vedere i funerali del cardinale Schuster».
Inizia, così, come nel più classico dei romanzi, il racconto – ovviamente di fantasia, ma con molti tratti autobiografici – di Carlo Andrea Fumagalli, professionista milanese non credente e alter ego, in qualche modo, dell’autore del saggio “Schuster, il vescovo della Ricostruzione” di Marco Garzonio.
Giornalista, psicoterapeuta, firma storica del “Corriere della Sera”, Garzonio usa, infatti, in parte, un artificio manzoniano, ma anche molta competenza, per raccontare chi fu il cardinale, monaco benedettino, Alfredo Ildefonso Schuster, beato dal 12 maggio 1996 e definito, all’indomani della Seconda guerra mondiale, “defensor civitatis”, per non aver abbandonato Milano dopo i devastanti bombardamenti del 1943.
Il volume edito da “Ancora”, che data proprio il 1996 nella sua prima edizione, ripubblicato e arricchito, è stato presentato presso l’Abbazia di Viboldone con la presenza dell’Arcivescovo e dell’autore. Con loro – moderati dal giornalista e presidente dell’Azione cattolica ambrosiana, Gianni Borsa -, suor Maria Antonietta Giudici, benedettina di Viboldone, che firma la prefazione del saggio, e Alfredo Canavero, già docente di Storia contemporanea alla “Statale” di Milano.
Ed è, appunto, lo storico che si sofferma «sul periodo forse meno noto di Schuster», dall’infanzia alla prima maturità, quando divenne abate dell’abbazia di San Paolo fuori le Mura. Dalla nascita in una famiglia non certo agiata, alla possibilità di proseguire gli studi grazie a un benefattore e alla morte del padre quando il futuro arcivescovo di Milano aveva solo 9 anni, tutto pareva “in salita”. Ma il piccolo Alfredo dimostrò subito di essere una sorta di enfant prodige, riconosciuto come una delle menti più brillanti del monaci benedettini, già a 28 anni docente di molte discipline nel noviziato di “San Paolo”. Uomo attento alla spiritualità dei monaci orientali – dal 1919 al 1922 fu rettore del Pontificio Istituto Orientale -, oltreché all’amatissima liturgia, alla musica sacra, alla storia cristiana delle origini. Procuratore generale della Congregazione Cassinese nel 1918, abate di “San Paolo”, visitatore apostolico a Milano, inviato dal brianzolo papa Pio XI, e poi Arcivescovo, Schuster – nonostante questo cursus honorum che, a molti, parve fin troppo folgorante – sembrava «come se fosse sempre di passaggio su questa terra, sempre comunque al di sopra delle cose di quaggiù», nota Canavero, utilizzando una nota definizione schusteriana e richiamando «il soave distacco», con un’espressione cara al Cardinale stesso.
Sulla figura spirituale del Beato e sul suo legame strettissimo con Viboldone, si sofferma suor Giudici. «Viboldone: la comunità monastica che qui si stabilì durante il suo episcopato, il 1 maggio 1941, data di riconoscimento ecclesiale della Comunità, e a cui ha lasciato come eredità un dono di paternità spirituale e di insegnamento», spiega.
«Eppure, il suo primo atteggiamento fu di una certa resistenza perché riteneva che, in un luogo abbastanza malsano, la vita delle sorelle sarebbe stata troppo disagiata, ma, gradualmente, sciolse le riserve e riconobbe con stima e affetto il ruolo delle Benedettine. Schuster fu un saldissimo punto di riferimento, “un vescovo dal cuore di madre”, per le sue molteplici attenzioni – come disse l’iniziatrice della Comunità, la badessa Maria Margherita Marchi, – anche nei momenti più difficili, quelli concretissimi durante la guerra (preoccupandosi, ad esempio, di inviare coperte alle monache) e quelli spirituali, sostenendole durante l’insorgere di incomprensioni.
Da alcune domande poste dal moderatore Borsa che definisce il libro «godibile e leggibilissimo» – «cosa ha rappresentato Schuster per Milano e per la Diocesi e cosa vuol dire essere santi oggi» – si avvia la riflessione del vescovo Mario intitolata “L’attualità di un santo inattuale”. «Inattuale perché la sensibilità di oggi non pare interessata a un tipo di comportamento che privilegiò sempre “l’oltre”, con i suoi orari della sveglia alle 3.30 del mattino, laddove ora al mattino si dorme. O, ancora, con il suo culto per le reliquie, gli scritti sulla liturgia, o anche il suo modo di pensare all’educazione dei preti a Venegono, in un Seminario da lui voluto lontano dalla città, nel silenzio».
Insomma, un uomo di un altro tempo, «eppure se si continua a parlarne, qualcosa di attuale su cui riflettere c’è», suggerisce l’Arcivescovo. Quell’essere attuale che non significa popolare, ma essere una provocazione, una presenza critica. «Non siamo autorizzati a rimpiangere il passato, ma lo siamo a essere profeti e provocatori», sottolinea.
Da qui, qualche cenno di tale provocazione. «Anzitutto, la libertà interiore di coloro che sono persuasi di dover rispondere a Dio, per cui si è nel mondo, ma non del mondo». E così fu nel caso di Schuster «per il quale, più che di sua presunta ingenuità (ad esempio, nei confronti dell’ultimo colloquio con Mussolini) si può parlare di libertà».
Un secondo tratto è l’attenzione alla presenza monastica (favorita da Schuster anche per i Cistercensi a Chiaravalle e per gli Olivetani a Seregno) «al fine di avere luoghi di silenzio e di preghiera vicino alla grande città».
E, infine, il rapporto con la città stessa chiamato «sorprendente».
«Non mancò a Schuster, pur in un tempo nel quale la gente riempiva le chiese, uno spontaneo scetticismo dei milanesi segnato, però, dalla sua santità. Simbolo di questo furono i suoi funerali seguiti da folle (tra cui l’immaginario Fumagalli), perché – come disse lui stesso ai seminaristi poco prima di morire, nel Seminario di Venegono, all’alba del 30 agosto 1954 – “quando passa un santo, la gente ancora si ferma, si inginocchia e prega”.
«Ciò che lo ha reso veramente significativo è che lui era un santo. È il rapporto con Dio che rende Schuster attuale e una provocazione per il suo tempo e per il nostro», conclude monsignor Delpini.
Infine, l’intervento dell’autore. «Quel Fumagalli in bicicletta sono io, Viboldone è un mio luogo del cuore, fin da quando ero da studente e, poi, quando portavo qui i miei figli. Se Milano è quella che è oggi, è perché i suoi arcivescovi e santi hanno costruito questi spazi, da Ambrogio in poi».
Così, tornano alla mente le parole del cardinale Martini “Come non domandarci, all’inizio di questo XXI secolo, il senso di questo insediamento alle porte della grande città?”.
Il senso è la preghiera e l’insediamento al quale faceva riferimento era Viboldone.