Alla Festa dei Fiori la riflessione iniziale di monsignor Delpini e la Messa da lui presieduta unite dal filo rosso della vocazione, che «dà intensità alla vita se è partecipazione alla vita di Dio»
di Annamaria
Braccini
Una Festa dei Fiori necessariamente diversa dalla tradizione – l’anno scorso non fu nemmeno possibile celebrarla a causa della pandemia -, nella quale si respira un’aria di speranza, di ripartenza, di fiducia, anche se la maggior parte dei preti e i seminaristi sono ancora collegati su piattaforma con il Seminario di Venegono.
Nell’aula Paolo VI, da cui prende inizio la mattinata, trovano posto in presenza alcuni membri del Cem e i presbiteri delle classi di ordinazione che vengono festeggiati nel 25°, 50°, 60°, 65° (tra questi don Elio Gentili, ancora oggi direttore del Museo di Scienze naturali del Seminario), 70° di Messa, come don Gino Villa, parroco emerito di Briosco che segue online. Con loro il cardinale Scola, che invia uno scritto e la benedizione nel trentesimo della sua ordinazione episcopale, e i vescovi monsignor Gervasio Gestori, nel 25°, monsignor Diego Coletti e monsignor Carlo Ghidelli (20 anni).
L’incontro
Nel presentare il tema, «Preti che annunciano il Vangelo della vocazione», il rettore don Enrico Castagna spiega: «Ricordiamoci che la prima pastorale vocazionale siamo noi».
L’Arcivescovo avvia la sua riflessione da Il diario di un curato di campagna di Georges Bernanos, Il potere e la gloria di Graham Greene e A ogni uomo un soldo di Bruce Marshall, «che conservano una suggestione commovente e che hanno segnato la mia maturazione come seminarista e prete». Tre romanzi che vedono protagonisti altrettanti preti, diversissimi, ma riuniti idealmente, negli ultimi tempi e momenti della vita, dal riconoscimento, rispettivamente, che «tutto è grazia», «che conta solo essere un santo» e che «come prete, era molto felice e sarebbe stato molto felice». Immagini – queste – di una vocazione vissuta sino in fondo (o tragicamente mancata) per esprimere la profondità della parola, appunto, vocazione «che uscita un disagio nella società contemporanea», osserva l’Arcivescovo. «Ma credo – aggiunge subito – che noi non possiamo desistere dal fare capire quale è il senso della vita. E la parola vocazione è proprio il modo per rispondere: non è il riferimento a qualcosa che vincola la libertà, ma è una chiamata a dare significato all’esistenza».
Il riferimento è alla sua Lettera per il Tempo dopo Pentecoste, Del tuo spirito Signore, è piena la terra”. «Tempo opportuno perché nelle nostre comunità sia annunciato il Vangelo della vocazione, perché è tempo dello Spirito che fa capire che la missione non è un incarico, ma il frutto del fede e della gioia che viene dal Signore». Tempo in cui si contempla anche Maria, «avendo così la possibilità di comprendere qualcosa della più importante delle vocazioni della storia». «Possiamo capire, in questo modo, che la risposta che tutti siamo chiamati a dare al Signore, è un entrare in noi stessi per aprire l’umanità alla pienezza, per affidarsi alla felicità, pur nelle difficoltà della vita».
Da qui l’indicazione di alcuni punti presenti nella Lettera: «Non siamo vivi per caso, per niente, per morire, ma perché chiamati alla vita dal Padre. Siamo chiamati a essere figli, santi e immacolati davanti a Dio, come si legge nell’Inno della Lettera agli Efesini. Questa è l’unica vocazione che segna la storia di ognuno di noi ed è la volontà di Dio». Inoltre, il rapporto tra la libertà e la grazia di Dio «due dinamiche che non si escludono». Terzo, «ciascuno è chiamato a compiere scelte che possono essere frutto di molte condizioni, aspettative, coincidenze, a volte di realtà spicciole e quotidiane. Ma come si fa a dire che la storia è storia di vocazione? Capendo che non nasciamo predestinati a fare il prete, ma a essere santi e immacolati davanti a Lui nella carità. Fare il prete è una vocazione se, con discernimento, lo si sceglie per amore e non per un’immagine idealizzata di noi stessi o del sacerdote, non per sistemazione. La vocazione dà intensità alla vita se la Parola illumina i passi, se è servizio, se è partecipazione alla vita di Dio».
Le testimonianze
Poi le testimonianze di don Paolo Rota, responsabile della Comunità pastorale Discepoli di Emmaus a Milano, per i 25esimi e di don Giancarlo Airaghi, della Comunità pastorale San Cristoforo a Gallarate. Il primo dice: «Il Vangelo è buona notizia, buona notizia è la vocazione che è la mia pace, la rilettura della Parola di Dio, la Chiesa, di aver ricevuto la proposta di fare discernimento, di essere cresciuti. In questa buona notizia mi sento a casa, posso essere utile vivendo ogni giorno con questa consapevolezza. Questo mi fa sentire al posto giusto, nel momento giusto, sempre. La casa è una dimora, ma anche molto di più, una casa indisponibile alle mie manipolazione, accogliente, non disposta a piegarsi al male. Casa dell’umanità universale, nella quale, come si è propagato il contagio della pandemia, si propaghi il contagio della fraternità. Sono ancora un sacerdote felice e grato con tanto bene ricevuto e da regalare».
Don Airaghi: «Il Vangelo della vocazione è un’esperienza di grazia, un legame di amore su cui costruire la vita. Una grazia che accompagna, previene e ricostruisce sulle nostre rovine. Nei momenti difficili, quella parola, quella promessa, ci ha rigenerati, pronti a essere come ci vuole il Signore, a essere Pastori collaborativi e che sanno ascoltare. Un cinquantesimo per dire grazie, per ricordare gli anni della formazione e per guardare al cammino che ancora ci resta, nella certezza che il Signore continuerà a parlarci e a insegnarci i sentieri».
Infine la presentazione dei 10 diaconi che diventeranno preti in Duomo il 12 giugno. «Noi camminiamo nell’amore, il nostro augurio – con le parole del loro motto – è “camminate nell’amore”».
La celebrazione in Basilica
Un filo rosso, quello della vocazione e della gratitudine, che annoda anche l’omelia dell’Arcivescovo nella celebrazione eucaristica presieduta in Basilica, in cui il saluto iniziale è portato dal Rettore. «Chiediamo – sottolinea don Castagna -, per i festeggiati e per tutti i preti di questa Diocesi, la grazia non scontata della gratitudine, non solo per essere sacerdoti, ma per far parte di questo Presbiterio. In questo tempo, che auspichiamo essere di ripresa e di riabilitazione, offriamo il dono di una rinnovata comprensione, di un più profondo ascolto, di una più creativa accoglienza. Chiediamo la grazia di essere una comunità accogliente e attraente che sappia accompagnare i germi di vocazione che il Signore, a piene mani, semina nella Chiesa».
L’omelia
Gesù che «quando parla alle folle, si sente spesso incompreso; che quando parla alle autorità è spesso polemico; che quando parla ai discepoli, è talvolta stizzito» e Gesù che «resta incantato, commosso e ringrazia il Padre quando vede sua madre che ascolta e pratica la parola. Gesù ora vive questo stesso sentimento di stupore nei vostri confronti, confratelli esemplari e lieti». Così l’Arcivescovo inizia la sua omelia, rivolgendosi, non solo ai presenti, ma a tutti i “suoi” preti.
«Credo che Gesù rimanga incantato per il cammino compiuto: anni e anni in cui la sua Parola ha nutrito le nostre parole e questa familiarità ci ha come trasfigurati a sua immagine e somiglianza. Eccoci qui tutti piccoli, tutti conquistati da questa Parola che ci ha chiamato, consolato, indicato la strada».
Chiari i caratteri di questo essere prete: «Voi, fratelli, per anni e anni, avete custodito la parola di Gesù e questo vi ha segnato la vita. Il tempo è stato grazia. Gesù è rimasto incantato della vostra perseveranza. La parola accolta, custodita, ha reso puri i vostri cuori. Vi siete liberati della meschinità, da una insensata preoccupazione per voi stessi. Siete diventati più semplici, più poveri. Vi siete arresi alla grazia. Avete riconosciuto i vostri peccati e chiesto perdono. Gesù è rimasto incantato per la purezza del vostro cuore. Ogni giorno avete cantato il vostro Magnificat: nei giorni lieti e in quelli tribolati, quando la vostra mente era una cosa sola con le vostre parole e quando la mente era altrove. Gesù è rimasto incantato del vostro cantico di ogni giorno».
E, infine, «la profezia dell’umanesimo evangelico», sul modello descritto da san Paolo nella Lettera ai Romani. «Gesù è rimasto incantato di un modo di essere uomini che è conforme alla sua umanità e io, a nome della Chiesa, sono qui per ringraziarvi, incoraggiarvi, chiedervi di essere fieri, con umiltà e consapevolezza, del bene che avete compiuto. Continuate a testimoniare e incoraggiare chi incontrate con questi tratti che hanno incantato Gesù».
A conclusione il pensiero è per i presbiteri scomparsi – in particolare a causa della pandemia – e un ringraziamento va al cardinale Scola e a monsignor Michele di Tolve, rettore fino al 2020.