Dall’ospitalità temporanea alle famiglie sgomberate da via Capo Rizzuto al “Villaggio solidale” del Parco Lambro e all’inserimento scolastico e lavorativo: lungo il percorso compiuto dalla Fondazione in più di dieci anni
di Claudio
URBANO
La voce della Casa della Carità è quella di chi lavora a fianco dei Rom ormai da più di dieci anni, con un impegno su tutti i fronti. Prima con un’iniziativa spontanea, per andare incontro ai bisogni dei vari insediamenti non autorizzati; poi con la risposta e la progettualità di fronte a una prima emergenza, lo sgombero del campo di via Capo Rizzuto avvenuto nel 2005, e la decisione prima di ospitare temporaneamente le famiglie nell’auditorium della Casa, quindi di avviare un percorso verso l’autonomia abitativa. Sono 84 le famiglie accolte dal 2005 a oggi (con 170 minori), e l’80% di queste ormai con una sistemazione stabile, tanto che 50 tra loro ora pagano un affitto o un mutuo.
C’è stata anche la difficile gestione della chiusura del campo di via Triboniano nel 2011, quando la Casa della Carità si è impegnata in una mediazione tra Rom, istituzioni e residenti. Negli ultimi anni dal Comune di Milano è arrivato l’affidamento, insieme ai Padri Somaschi, del Centro di emergenza sociale di via Sacile (prima in via Lombroso), dove il Comune offre una prima sistemazione alle famiglie dopo gli sgomberi. «Una situazione, quest’ultima, ben differente rispetto agli altri nostri interventi», sottolinea Donatella Di Vito, responsabile Area emergenze e Rom della Casa della Carità. Gli alti numeri del centro (130-150 persone) e gli spazi, con container pensati appunto per l’emergenza e non certo per ricreare un ambiente familiare dove poter lavorare singolarmente con gli ospiti, sono le ragioni per cui in questi centri è molto più difficile lavorare con le famiglie a un percorso di uscita dai campi e di integrazione.
Sono invece esperienze di integrazione realizzata, o quantomeno possibile, quelle su cui si sofferma De Vito. A partire proprio dalle famiglie del campo di via Capo Rizzuto, con il progetto del “Villaggio solidale” da cui prende il nome anche il villaggio del Centro ambrosiano di solidarietà al Parco Lambro, dove sono ospiti ora una decina di nuclei. Non solo spazi dignitosi, ma un lavoro alla pari con le famiglie Rom per costruire un percorso di autonomia, «dal confronto per capire quali siano le loro aspettative, ma anche per mettere in chiaro le regole di convivenza, al sostegno e alla formazione igienico-sanitaria delle donne, alcune delle quali vengono da esperienze di aborti multipli a soli trent’anni», sottolinea De Vito. Fino all’inserimento scolastico e professionale per i ragazzi e ai corsi di alfabetizzazione e alla ricerca del lavoro con le donne (19 hanno imparato a leggere e a scrivere e 40 ora hanno un impiego).
In una situazione di precarietà che, se prima per i Rom era «determinata culturalmente, ora è condizionata dalla situazione economica e sociale», spiega De Vito, alle famiglie «servono un tempo e uno spazio dignitoso, dove loro possano allargare il loro orizzonte progettuale e possano cambiare le loro aspettative. Altrimenti l’orizzonte, soprattutto per le donne, è quello dell’elemosina. Noi – continua De Vito – abbiamo lavorato invece perché il loro impiego fosse quello della cameriera ai piani, della badante, dell’addetta alle pulizie». «Siamo riusciti a inserire al lavoro giovani e donne quando abbiano collaborato bene con i Servizi per il lavoro del Comune – rileva De Vito -. La Regione, coi fondi europei, potrebbe fare molto. Deve esserci un raccordo forte tra chi come noi si occupa della gente e le istituzioni, altrimenti restiamo soli e non ce la facciamo».