Laura Rancilio, rappresentante di Caritas italiana nel Comitato tecnico-sanitario, denuncia la precarietà delle strutture d'accoglienza. E sulla malattia: «I pregiudizi fanno molto più male del virus»

di Luisa Bove

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Potrebbe essere l’ultima Giornata mondiale contro l’Aids, quella che alcune Case alloggio della Lombardia celebrano il 1° dicembre. A dirlo è Laura Rancilio, dal 2000 rappresentante di Caritas italiana per quella che un tempo era la Consulta nazionale Aids e ora si chiama Sezione M del Comitato tecnico-sanitario; da 15 anni è anche vicepresidente della sezione ministeriale.

«Le Case alloggio della regione che ospitano persone con Aids sono ferme come rette al 2005 – dice Rancilio -, non hanno mai avuto un adeguamento Istat, né ricevuto ristori destinati alle strutture di accoglienza o simili, perché la Regione Lombardia non le ha accreditate. In questo momento hanno difficoltà economiche molto serie. Alcune realtà sono a rischio chiusura, basti pensare agli aumenti degli ultimi 17 anni, comprese le ultime bollette, ma Regione Lombardia sembra sorda ad aumentare le rette o dare un aiuto economico per andare incontro alle necessità».

E quante sono?
Solo in Lombardia sono poco più di una ventina, accolgono circa 250 persone tra residenziali e diurni. Sono persone provate dalla malattia e che spesso non hanno la possibilità di avere una casa loro e di essere assistite dai familiari, persone che hanno storie di marginalità importante (vecchi tossicodipendenti, senza dimora, stranieri), ma anche persone che sono state allontanate da casa quando hanno avuto la diagnosi. Sono persone con problemi molto seri, spesso con disabilità fisiche, neurologiche, mentali… Con l’età che avanza alcune hanno genitori molto anziani non in grado di assisterli.

Sono numeri davvero esigui…
Sì. Solo una minoranza delle persone affette da Hiv necessita di questa accoglienza, ma visti i numeri così bassi Regione Lombardia probabilmente non la considera una priorità, a differenza delle strutture per anziani o disabili che hanno molti più ospiti. In questa situazione di stallo, le Case alloggio fanno molta fatica a sopravvivere. Per questo hanno scritto lettere accorate, prima all’assessore Moratti e ora a Bertolaso, Fontana e ai consiglieri regionali, per dire: «Veniteci incontro altrimenti il 1° dicembre rischiamo di chiudere. Questi malati sono pochi, ma poi dove li mettete?». La questione è aperta e anche solo aumentare le rette all’Istat sembra tanto a Regione Lombardia. Le case (previste dalla legge 135/90) esistono da oltre 30 anni, abbiamo festeggiato il trentennale del Centro Teresa Gabrieli nel 2019 e in questi giorni ricordiamo quello del Centro Don Isidoro Meschi, nate entrambe da Caritas ambrosiana. Sono strutture che hanno vissuto tante fasi: negli anni Novanta accompagnavano alla morte, poi hanno accompagnato alla vita le persone che grazie alle terapie stavano meglio. Ora, da una decina d’anni, si trovano a lavorare tanto sulla cronicità con malati affetti da 40 anni molto provati dalla vita e dal virus.

Quante sono oggi le persone contagiate?
Dai dati del Notiziario dell’Istituto superiore di sanità (redatto anche da Rancilio, ndr), aggiornati al 31 dicembre 2021, possiamo dire che è evidente una ripresa rispetto al calo del 2020 dovuto alle difficoltà di accesso al test per la chiusura dei servizi a causa del Covid. C’è quindi un aumento, ma probabilmente in tendenza con la discesa degli anni precedenti. Si va quindi a colmare il “buco” di due anni fa, ma non sappiamo se avremo code in futuro. Il virus dell’Hiv circola ancora e, come al solito, le persone che stanno peggio sono quelle che hanno le diagnosi più tardive, perché non si considerano a rischio e non hanno mai fatto un test.

Laura Rancilio

Non c’è dubbio che la medicina abbia fatto passi avanti nelle terapie…
Sappiamo bene che le persone che si curano, e anche presto, hanno un’aspettativa di vita pari a quella della popolazione non affetta. E poi non trasmettono l’infezione agli altri, perché quando il virus nel sangue non circola più, ma rimane nei cosiddetti “santuari”, non c’è più rischio di contagio. Ciò spiega anche perché in questi anni stiamo assistendo a una curva lenta di discesa sui nuovi casi Hiv. Dal 2016 infatti l’Italia ha messo in terapia tutte le persone affette, mentre prima erano riservate solo agli immunocompromessi, ora invece si tratta la persona con Hiv nei giorni immediatamente seguenti la diagnosi. Questo porta a far star meglio sia il singolo, sia la comunità, perché si riduce la circolazione.

Quali le sfide?
Il fatto che le persone che si curano presto stanno bene sta portando a un’azione a livello nazionale verso le compagnie di assicurazione e le banche, perché attualmente chi è affetto da Hiv non riesce ad accedere ad assicurazioni sulla vita o ottenere mutui. Questo perché vengono considerati a rischio di progressione di malattia grave. Si tratta di un aspetto che pesa molto sulla vita di persone che hanno un lavoro, una famiglia e stanno bene.

Cosa direbbe oggi ai cittadini, alla gente comune, su questo fenomeno così delicato?
Il messaggio che vorrei dare è di aprirsi alla conoscenza (che ormai esiste da tempo, ma è poco conosciuto) che U=U, cioè che le persone con carica virale zero (Undectable) non trasmettono l’infezione (Untransmissible), e di abbassare tanto lo stigma e i pregiudizi nei confronti delle persone che vivono con Hiv. Stigma e pregiudizi fanno molto più male del virus.

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