Un progetto finanziato dalla Cei, con i fondi del’8x1000, per la realizzazione di 16 laghetti artificiali necessari alle coltivazioni alternative alla cannabis
di Daniele
ROCCHI
inviato a Beirut
C’è calma apparente nella Valle della Bekaa, incastrata tra il Monte Libano a Occidente e la catena dell’Anti-Libano a Oriente, le cui alture ne rappresentano il poroso confine tra il Libano e la Siria dove dal 2011 si combatte una sanguinosa guerra civile. Per quanto disti solo poche decine di chilometri dalla capitale Beirut, la valle sembra lontana anche dalle tensioni interne, dopo le dimissioni del premier Saad Hariri, poi sospese per permettere un dialogo tra i partiti politici. Lunga 120 e larga circa 16 chilometri, la Bekaa è una regione agricola trasformata in un centro di produzione della cannabis dagli anni della guerra civile libanese (1975-1990). Produzione che continua ancora oggi garantendo facili guadagni agli agricoltori locali e un reddito milionario ai clan e alle milizie che controllano il territorio.
Oggi nella valle della Bekaa, in particolar modo la zona di Baalbek, si producono le due migliori qualità di canapa indiana: il libanese giallo e quello rosso. E poco importa se la coltivazione sia illegale dal 1929 e se negli anni ‘90 il governo ha avviato un piano di eradicazione delle coltivazioni che non ha portato, però, i risultati sperati. I contadini, infatti, non hanno mai ricevuto gli aiuti promessi in cambio della riconversione delle piantagioni di hashish. Alla fine della guerra civile, nel 1990, l’Onu aveva calcolato in circa 30mila, un terzo della terra disponibile, gli ettari coltivati a cannabis. Si stima che il 4% dell’hashish mondiale sia di provenienza libanese.
Nonostante hashish e papavero da oppio, da cui si ricava eroina, offrano lauti guadagni, nella valle della Bekaa c’è anche chi sceglie di dedicarsi alla produzione di grano, mais, cotone, uva e frutta, coltivazioni che trovano un clima altrettanto favorevole per la loro produzione. È il caso dell’Osad, Organisation for social & agricultural development (Organizzazione per lo sviluppo sociale e agricolo), che, con l’aiuto anche della Chiesa cattolica italiana, ha avviato un progetto per la realizzazione nelle zone di Baalbek e Deir El Ahmar di una serie di laghetti artificiali destinati a fornire l’acqua necessaria per l’irrigazione delle coltivazioni.
In questo lembo di terra nei giorni scorsi si è recato in visita un gruppo di giornalisti della Federazione italiana dei settimanali cattolici (Fisc), vincitori del concorso “8×1000 senza frontiere”, promosso dalla Fisc e dal Servizio per la promozione del sostegno economico alla Chiesa cattolica della Cei (Conferenza episcopale italiana).
«Il progetto – ha spiegato Khoury Hanna, uno dei responsabili locali – è partito nel 1997 e fino ad oggi sono stati costruiti 16 laghetti. Alla Cei abbiamo chiesto di finanziare, con fondi dell’8×1000, l’acquisto di macchinari per scavare e delle attrezzature tecniche necessarie a completare l’opera i cui beneficiari saranno i 45 mila abitanti dei 23 villaggi che usufruiranno dell’acqua per tecniche di produzione agricola moderna come alternativa alla produzione di cannabis». Una scelta non più rinviabile per Hanna: «Non potevamo più assistere impotenti alla morte della nostra gioventù. L’uso della cannabis ha distrutto il fisico dei nostri giovani, ha annichilito la loro mente, rendendoli incapaci di portare avanti con dignità la loro esistenza. Questo progetto nasce per loro, e per garantire un futuro a questo Paese, prima che sia troppo tardi».
«Vuole essere un progetto che incoraggia la popolazione a restare e i giovani a tornare» ha affermato il vescovo maronita di Baalbek-Deir El Ahmar, mons. Rahme Hanna, che ha ospitato i giornalisti nella sua residenza accompagnandoli di persona a visionare i lavori: «Grazie al popolo italiano e grazie alla Cei per questo aiuto prezioso che ci permette di condividerne i frutti con tanti rifugiati siriani che qui hanno trovato riparo dalla guerra».
Tra i giovani che hanno scelto di restare e contribuire al cambiamento nella valle della Bekaa c’è Walid Habchy, con la sua azienda vinicola “Couvent Rouge”, fondata nel 2010 all’interno di una cooperativa denominata “Coteaux d’Heliopolis” che, dalla fine degli anni ’90, persegue l’obiettivo di rimpiazzare la coltivazione di cannabis con vitigni offrendo la possibilità ai contadini di restare nei loro villaggi nativi.
«Abbiamo iniziato a coltivare uva da vino su una superficie di 2,5 ettari. Oggi siamo arrivati a 250 e l’obiettivo è arrivare a 1000 ettari – ha affermato Habchy -. Produciamo tre tipi di vino, un bianco, un rosso e un rosé e diamo lavoro a 5 persone che diventano molte di più quando è il momento della vendemmia. La possibilità di avere acqua dai laghetti, che usiamo per irrigare a goccia, ci permette di elevare la qualità dei nostri prodotti. Oggi la nostra produzione si attesta sulle 200mila bottiglie l’anno». Come Walid tanti altri agricoltori hanno scelto di restare e molti di questi vengono dai villaggi cristiani circostanti. Intorno ai vigneti cominciano a sorgere vasti appezzamenti di alberi da frutta, verdura e tabacco. L’acqua dei laghetti sembra irrigare ogni giorno di più questa terra dalla calma apparente.