Nel Mese missionario straordinario papa Francesco ha invitato ad approfondire quattro dimensioni costitutive della missione della Chiesa nel mondo. Padre Fabrizio Calegari (Pime) parla de «La formazione missionaria: Scrittura, catechesi, spiritualità e teologia»
di padre Fabrizio
CALEGARI
Missionario del Pime
Come formare una comunità alla missione? Mi verrebbe semplicemente da rispondere: con la fede! Papa Francesco continua a invitarci a essere Chiesa in uscita. Che significa? Forse, anzitutto, che non possiamo rassegnarci alla crisi rimanendo barricati dentro le nostre mura.
La missione ci ha messo dentro “a martellate” che, se anche esiste la parrocchia, essa non coincide con la residenza del prete. Quando si hanno decine di villaggi da visitare costantemente, lontani molti chilometri, prima o poi si arriva a capire che il baricentro è nettamente spostato di fuori. Non è la gente che deve raggiungere noi, ma noi che dobbiamo raggiungere la gente.
Cambiare questa concezione “tolemaica” della parrocchia è sicuramente uno dei punti nodali. Infatti la domanda non è solo «perché la gente non viene più in chiesa?», ma anche «come fare allora per raggiungerla?». È vero che siamo ostaggio di strutture e tradizioni, dei «si è sempre fatto così», ma la parrocchia è una cosa viva, non il museo delle cere. È davvero impossibile provare, tentare, inventare qualche cosa di nuovo? Diamo pure per scontato gli sbagli. Se non altro ci avremo provato. Il punto vero, però, è un altro.
Ho sempre pensato che la missione non sia un fatto puramente geografico. Per alcuni, per me, è importante dare anche una risposta all’imperativo di Gesù: «Andate in tutto il mondo» (Mc 16, 15). Il che significa anche “in tutti i mondi”: non c’è ambito della vita umana che non interessi alla nostra azione pastorale. La questione, però, non è tanto “qui” piuttosto che “là”. Perché la missione nasce anzitutto da uno slancio che viene da dentro. Nasce dall’aver capito che non è la stessa cosa conoscere Gesù e non conoscerlo. Viene dalla gioia di averlo incontrato e sentirlo compagno di strada ogni giorno, sentire la sua parola che illumina la strada, sentire il suo amore che mi nutre.
Se davvero seguirlo mi fa felice, come faccio a non raccontarlo, a ridirlo, a non contagiare altri? E se ho capito che l’incontro con Lui ha cambiato la mia esistenza, dandole un senso e una forza che altrimenti non avevano, allora come non invitare nuovi amici a fare la stessa esperienza? Il problema vero, quindi, è di fede: la mia, anzitutto, e quella della comunità. Perché sembra quasi che, dietro alla crisi di tante comunità, si nasconda perfino un dubbio. Che cioè il Vangelo, in fondo, abbia perso di forza, non sia più una buona notizia capace di deflagrare nel cuore dell’uomo. E se non sorprende più me, è perfino inutile parlarne ad altri. E invece…
Chi lavora nella pastorale giovanile, ma non solo, sa benissimo quante sete ci sia delle parole di Gesù e quanto portino ancora frutto! Quante volte abbiamo sentito dire che «la missione ormai è anche qui», senza che peraltro cambiasse mai nulla nella pastorale? Ma era solo un slogan vuoto. La missione viceversa non è uno slogan, un piano pastorale, una strategia diversa, una mano di vernice dai colori vivaci, un optional che posso anche evitare di mettere: è esattamente il modo di essere o non essere Chiesa e di vivere il nostro discepolato dietro al Signore risorto. È la nostra fede che trova il modo di ridire e testimoniare Chi ci muove e le ragioni che ci fanno vivere.
Se abbiamo dentro questo motore, cadono subito tante barriere e confini inutili, fatti di strutture, politiche, abitudini, campanili, che abbiamo solo nella testa. Se quello che mi spinge è la voglia di annunciare, troverò nuove strade, inventerò altri modi, imparerò nuove lingue e lo faremo insieme. È un tempo di grazia quello che stiamo vivendo. Nella vigna del Signore c’è lavoro per tutti.