Il profondo legame tra il grande artista americano, scomparso nel 1998 a 86 anni, e il monastero della Cascinazza a Gudo Gambaredo.
di Luca FRIGERIO
«Inizio il mio ultimo viaggio, fermandomi». Lasciato il suo studio di Assisi, luogo della sua conversione cristiana, nell’autunno del 1979 William Congdon si trasferiva in un’ala del giovane monastero benedettino dei Santi Pietro e Paolo, a Gudo Gambaredo, nella Bassa milanese. «Un luogo senza volto, senza memoria», annotò nel suo diario il pittore americano. Ma proprio di questa quiete anonima, di questa pace senza tempo sentiva ora di aver bisogno. Più d’uno, forse, rimase sorpreso di questa decisione. Non chi William lo conosceva bene, chi ne aveva seguito il suo cammino interiore, la sua crescita spirituale.
È stato, Congdon, una delle personalità artistiche più interessanti della seconda metà del ventesimo secolo. Originario del Rhode Island (dove era nato nel 1912), rampollo di un’agiata famiglia di industriali puritani, Bill aveva conosciuto l’orrore della guerra (fu uno dei primi soldati alleati a entrare nei campi di sterminio nazisti), si era innamorato di Venezia, aveva aderito al movimento dell’Action Painting, maturando nel cuore un desiderio inappagato di infinito. La terra di san Francesco fu per lui il luogo delle rivelazioni, della scoperta del sacro, vissuto da allora nel quotidiano e sulla tela, in ogni pennellata.
L’arrivo alla Cascinazza rappresentava così l’ultimo capitolo della sua avventura artistica e umana. Con perseveranza di contadino, con obbedienza di monaco, fra le brume della campagna attorno a Buccinasco, Congdon riscopriva infine i ritmi delle stagioni, l’odore della terra, la lentezza necessaria dello sbocciare di un fiore o del maturare di un frutto. Così che il suo pennello, dopo aver ritratto lo ieratico splendore della Laguna, aver indagato il dolore e la salvezza del Crocifisso, ora si faceva aratro di inedite icone, grondanti di vita, invocanti il Creatore.
Colori grassi, materici, spatolati, quelli delle sue ultime opere. Meditati paesaggi dell’anima, che William Congdon contemplava dalla finestra della sua «cella-studio» con sguardo assorto, fino all’ultimo giorno, quel 15 aprile 1998, mentre compiva 86 anni. «Interessante che non possa vedere un cielo orizzontale, ma solo verticale, che perfora, spacca, purifica la terra», lasciò scritto, come un testamento spirituale.