Esposta due anni fa in una mostra che per la prima volta presentava gli affreschi quattrocenteschi della chiesa scomparsa di Santa Chiara. Il paragone con il "modello" di Piero della Francesca e quell'insolita scritta che rimanda a Pilato...

risurrezione montaggio

Due anni fa, in piena pandemia, al Museo Diocesano di Milano è stato esposto per la prima volta un ciclo di affreschi sulla vita di Gesù, proveniente dalla chiesa milanese scomparsa di Santa Chiara (oggi nella collezione Intesa Sanpaolo, Ubi Banca): pitture di grande fascino e suggestione, databili alla seconda metà del Quattrocento, ma delle quali si conosce ben poco e che proprio in occasione di quella rassegna sono state studiate in modo approfondito (leggi qui l’articolo).

Di questa serie vogliamo qui segnalare, in particolare, l’immagine della Risurrezione di Cristo. Proprio riguardo a questo pannello, infatti, anche noi possiamo offrire un piccolo contributo.

Abbiamo notato, infatti, che la scena pertinente al ciclo di Santa Chiara presenta una certa affinità con una tra le più celebri rappresentazioni della Risurrezione, quella realizzata attorno al 1460 da Piero della Francesca a Sansepolcro, nella sua città natale. Il dipinto milanese, invece, è opera di un pittore non ancora identificato, certamente lombardo, vicino ai modi degli Zavattari, cresciuto alla scuola tardogotica di Michelino da Besozzo, ma già aperto alla nuova lezione rinascimentale di Vincenzo Foppa: una relazione seicentesca riporta che su questi affreschi si poteva leggere la data «1476», che in effetti è stilisticamente compatibile con il panorama artistico di quegli anni alla corte degli Sforza.

Come si può osservare dall’accostamento delle due immagini, simile in entrambe è la composizione della scena, con la figura del Risorto al centro che esce dal sepolcro sovrastando le quattro guardie tramortite e stagliandosi sul paesaggio con colline e arbusti. Fra il dipinto di Piero della Francesca e quello dell’anonimo milanese si possono notare anche alcune differenze: il panno che avvolge Gesù è rosaceo nel primo caso, mentre è bianco nel secondo; inoltre il Cristo “toscano” impugna il vessillo crociato (simbolo del suo trionfo sulla morte) con la mano destra, mentre quello “lombardo” lo regge con la sinistra perché è ritratto nel gesto benedicente.

Tuttavia altri particolari rivelano una sorprendente consonanza fra le due opere: il piede che si appoggia al bordo della tomba, sottolineando l’azione dell’ergersi del Risorto (molto più efficace in Piero, naturalmente); la tipologia stessa del sarcofago, che per “materiali”, colori e modanature sembra essere perfino una citazione l’una dell’altra; e soprattutto lo sguardo fisso del Cristo, che tanto ha impressionato tutti gli ammiratori del capolavoro di Sansepolcro e che ritroviamo, seppur più di “scorcio” (ma con la medesima intensità), proprio nell’affresco milanese: quello sguardo che porta veramente questo momento eccezionale e misterioso (nel senso più profondo del termine) al di là del tempo e dello spazio.

Del resto non si vuole qui pretendere una derivazione “diretta” della Risurrezione della chiesa milanese di Santa Chiara da quella di Piero. Anche per il maestro del Rinascimento, peraltro, già alcuni anni fa avevamo osservato una certa assonanza con le splendide miniature di Anovelo da Imbonate presenti sul maestoso Messale di Santa Tecla della Biblioteca capitolare del Duomo di Milano, databili agli inizi del XV secolo: anzi, il gesto benedicente del Risorto dell’anonimo lombardo pare proprio derivato da questo codice ambrosiano (o comunque da una fonte comune).

Osservando ancora attentamente l’affresco ora in mostra al Museo diocesano, inoltre, si può notare un dettaglio davvero singolare. Sullo scudo del soldato a destra, dietro la tomba, si legge nitidamente la parola «Pilato», seguita dal segno grafico per il genitivo plurale in latino: la scritta, dunque, vuole segnalare che quelle guardie sono «di Pilato».

Anche un miliziano dipinto da Piero, sempre nella parte destra, reca sullo scudo l’acronimo «SPQR» (Senatus Populusque Romanus: abbreviazione che nelle epigrafi latine indica il popolo romano), cosa piuttosto frequente in queste scene, realizzate tra XIV e XV secolo (oppure si possono trovare vari simboli, dalle teste leonine agli scorpioni, con evidente significato simbolico).

Ma la scritta «Pilatorum» è davvero inconsueta: rara, se non unica, almeno sulla base delle nostre conoscenze. Un riferimento puntuale, questo, che non si trova nei Vangeli canonici, ma che è presente invece nell’Apocrifo di Nicodemo (noto anche come Atti di Pilato), spesso utilizzato dagli artisti per illustrare la Passione e la Risurrezione di Cristo, laddove si legge di quegli uomini armati «che gli Ebrei avevano chiesto a Pilato per fare la guardia alla tomba di Gesù». Ma la ricerca, come si diceva, è solo all’inizio.

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