Durante la seconda guerra mondiale il cardinal Schuster consacrò a Maria la città, per salvarla dalle bombe. Un "voto" che venne sciolto nel 1956 con la costruzione di questa nuova chiesa, nel quartiere Vigentino. Che ancora oggi è pietra viva che invoca la pace e la fine di tutte le guerre.
Testo e foto di Luca
Frigerio
Le vittime delle guerre sono tutte uguali. Che siano trafitte dalle spade o fatte a pezzi dalle bombe. Uguali sono le urla delle madri disperate, uguali sono le lacrime di paura e di dolore, uguale è il sangue versato. È impressionante osservare i mosaici della facciata della chiesa di Santa Maria Liberatrice a Milano, nel quartiere Vigentino, realizzati nel 1958 in ricordo e a testimonianza degli orrori del secondo conflitto mondiale: quelle mani impotenti alzate al cielo, quei corpi inanimati, quei volti disfatti dall’angoscia sono gli stessi che oggi vediamo nelle immagini che arrivano dall’Ucraina martoriata.
Ancora morte, ancora distruzione, ancora guerra. «Non riuscite a smettere…», sembra dirci il volto rattristato di Maria. Carlo Varese, grande e dimenticato artista del secolo scorso, l’ha voluta ritrarre così, la Madre di Dio che ci offre suo Figlio. Lei che non cessa di pregare e intercedere per noi. Lei che è la «Liberatrice», dall’odio, dal peccato, dalla paura. A invocarla, ai suoi piedi, il beato cardinal Schuster, insieme alle donne, agli uomini, ai bambini, agli anziani, ai sacerdoti del suo tempo e di ogni tempo.
L’arcivescovo di Milano, infatti, nell’ora più buia, quando i bombardamenti disperdevano il suo gregge e devastavano le città, aveva consacrato gli ambrosiani al cuore dell’Immacolata, implorando presso di lei salvezza e liberazione. E quando, nel dopoguerra, nel nuovo espandersi del capoluogo lombardo, con l’arrivo di migliaia di famiglie immigrate, vi fu anche nel Vigentino la necessità di erigere una nuova chiesa, all’allora parroco don Carlo Giannasi e al pastore Ildefonso Schuster parve giunta l’occasione di sciogliere quel voto di guerra, costruendo un tempio che fin dal nome ricordasse la salvezza e la liberazione, concesse e ottenute.
Del progetto fu incaricato l’architetto Ezio Cerutti, che ideò un edificio semplice, funzionale, senza inutili fronzoli, ma soprattutto luminoso e accogliente: una chiesa priva di colonne e «impedimenti» (anche soltanto «visivi»), dove l’assemblea potesse ritrovarsi a celebrare come comunità, nella gioia riconoscente. E dove lo sguardo corresse sulla grande parete di fondo, dietro e sopra l’altare, affollata di figure come una parete di Raffaello: per fermarsi, lo sguardo, come calamitato, sul volto di Maria. Ma che questa volta appare sorridente, rassicurante, dolcissimo. Eccola, la Liberatrice. Colei che il monaco benedettino aveva conosciuto ben prima di diventare vescovo di Milano, avendola invocata già a Roma, nel suo santuario del Testaccio.
Autore di questi affreschi è Ferdinando Mozio Compagnoni, pittore bergamasco di sicuro mestiere, che negli anni Cinquanta e Sessanta fu attivo in diverse chiese di nuova costruzione. Ma che proprio qui al Vigentino, a nostro giudizio, realizzò il suo lavoro più riuscito e complesso.
Al centro sta la Vergine, seduta su un trono di nuvole, incorniciata in un tempio, perché lei stessa è la Chiesa, la sposa di Cristo. A destra la schiera dei santi: Ambrogio e Carlo, i patroni della Diocesi di Milano, per primi; e poi Caterina da Siena e Francesco, dell’Italia custodi; quindi frate Domenico di Guzman, il giovane Luigi Gonzaga, il martire Giorgio con il drago sconfitto… Santi della Chiesa celeste e trionfante, sovrastati dagli angeli, splendenti come nella visione di Giovanna d’Arco.
Tutti si volgono a Maria, ma la Madre stende la sua mano protettrice dall’altra parte, sulla testa del pontefice regnante all’epoca della stesura di questo ciclo, Pio XII, con le braccia spalancate come lo ha immortalato una celebre foto, tra la gente del quartiere romano di San Lorenzo, appena bombardato: Pacelli che proprio in quel 1958 ebbe a terminare il suo viaggio terreno. E sotto di lui il suo segretario di Stato del tempo di guerra, l’arcivescovo di Milano, il futuro Paolo VI, papa santo: Giovan Battista Montini, in un delicato ritratto.
È qui che attende fiducioso il popolo tutto di Dio: gente umile per lo più, padri e madri di famiglia con i loro fanciulli, in maniche di camicia e giacche sbottonate. Sulle loro teste la gloria del Signore, assiso sul Tetramorfo. Mentre alle loro spalle fuggono scacciate dalla divina potenza le personificazioni tragiche e grottesche della guerra, della morte e della fame: apocalittico trio che Compagnoni dipinge con efficacia e potenza espressiva.
Milano è ricca di chiese splendide, autentici scrigni d’arte. Questa del Vigentino, «sorella» moderna dell’antica e mirabile parrocchiale dell’Assunta, è «fuori» dai circuiti turistici e nota, si potrebbe dire, soltanto alla vivace comunità che la anima, affidata ormai da quasi trent’anni alle cure dei padri missionari messicani dello Spirito Santo. Ma davvero, in questi tempi di nuova tragedia, pandemica e bellica, possiamo tornare a invocare Maria in questo suo tempio di periferia: «O Madre di Misericordia, continua verso di noi la tua opera pietosa».