Pellegrino dall’Irlanda all’Italia, moriva 1400 anni fa. La sua tomba a Bobbio, nell’Appennino piacentino, dove lo stesso cardinal Scola l'ha commemorato.
di Luca FRIGERIO
Monaco, missionario, predicatore, studioso, poeta. Ma anche fondatore di comunità, consigliere di principi e regine, guida per vescovi e abati, ispiratore di pontefici, difensore dei poveri, pacificatore dei popoli… Fu tutto questo e altro ancora, Colombano, il grande santo irlandese che 1400 anni fa, nel 615 dell’era di Cristo, terminava la sua straordinaria avventura terrena. E che è stato ricordato il 30 agosto con una solenne celebrazione sulla sua tomba, a Bobbio, nell’Appennino piacentino, presieduta dal cardinale Angelo Scola.
San Colombano giunse a Milano attorno al 612, dopo aver lasciato la natia terra d’Irlanda e aver attraversato mezza Europa. Il monaco gaelico, infatti, si era fatto missionario in regioni solo marginalmente cristianizzate, come quelle dominate dai franchi e dai visigoti, o tribolate da lotte civili, come al di qua delle Alpi, in una continua opera di evangelizzazione e di conciliazione, ma senza mai cedere alla tracotanza dei potenti e anzi sempre avendo come unica bussola, in questo lunghissimo viaggio, la Parola di Dio.
“Viaggio” si è detto, ma quello di Colombano fu veramente un unico, meraviglioso pellegrinaggio. Così che il santo irlandese, e lo si intuisce anche dai suoi scritti e dalle raccomandazioni ai confratelli, sembrava spinto nella sua discesa verso sud innanzitutto dal desiderio di raggiungere il cuore della cristianità, Roma, per pregare sulle tombe degli apostoli Pietro e Paolo. Lui, che per tutto quello che fece e disse e scrisse nella sua venerabile vita, si guadagnò l’epiteto di “nuovo apostolo delle genti”, in un mondo che non sarebbe stato più lo stesso. Anche grazie a lui.
Quando arrivò nella diocesi ambrosiana, Colombano era ormai settantenne: un’età che pochi riuscivano a raggiungere al tempo. Ma il monaco di Bangor era ancora animato da uno spirito intrepido, e da energie che parevano inesauribili. A Milano trovò una situazione difficile, con il vescovo titolare esiliato a Genova dai nuovi signori longobardi e una comunità cristiana divisa fra scismatici e seguaci dell’eresia ariana.
Il re Agilulfo, e soprattutto sua moglie Teodolinda, ebbero la lungimiranza di capire che proprio questo venerando uomo di Dio venuto da tanto lontano aveva la forza di riportare la concordia sociale e religiosa nei loro territori, e lo agevolarono in tutto. Colombano predicò e agì, sempre viaggiando, sempre muovendosi. Ma sentiva che ormai la sua ora era vicina.
Quando anche questa impresa poté dirsi conclusa, il vecchio abate chiese ai sovrani longobardi un angolo di terra dove potersi fermare nei suoi ultimi giorni. Voleva dar vita a un nuovo cenobio, l’ultimo, dove i suoi discepoli sarebbero cresciuti in fede e armonia, meditando la Parola di Dio, studiando le Sacre Scritture, assistendo i miseri e gli infermi.
Il luogo che gli venne affidato si trovava dopo Piacenza, sulle prime alture appenniniche, vicino al fiume Trebbia. Bobbio era, ed è, il suo nome. La zona era verde e boscosa, selvaggia, perfino: ma i bianchi monaci l’avrebbero ben presto resa ordinata e luminosa, accogliente e ben coltivata, fino a farla diventare la “Montecassino del nord”. Colombano, ancora una volta, diede per primo l’esempio, portando lui stesso le pietre per restaurare l’antica chiesa che sorgeva abbandonata in quell’eremo, e che già in antico era stata dedicata a San Pietro.
Colombano, «il nocchiero che era salpato dall’Isola del Destino per riportare Cristo in Europa», morì serenamente il 23 novembre del 615, vegliato dai suoi fratelli, che recitavano per lui quelle stesse, bellissime liriche sacre che il santo irlandese aveva composto: «Resistete e aspettate tempi migliori, o voi che tante traversie avete patito: Dio porrà fine anche a questi travagli».