Fu lo stesso fondatore, di cui si ricorda in questi giorni l'ottavo centenario della morte, a inviare nel capoluogo lombardo i suoi discepoli, che si insediarono presso l'antica basilica di Sant'Eustorgio, dove era iniziata, secondo la tradizione, l'evangelizzazione della città.

Chiostro Diocesano
Il Chiostro del convento Sant'Eustorgio a Milano dove oggi è allestito il Museo Diocesano (Foto L. Frigerio)

di Luca Frigerio

Ci sarebbe stato molto da lavorare, a Sant’Eustorgio. Squarciato il tetto della chiesa, paludoso il terreno attorno, ridotte a stamberghe le abitazioni dei pochi canonici rimasti. Ma fra’ Giacomo e fra’ Roboaldo non erano uomini da lasciarsi scoraggiare di fronte alle prime difficoltà. Si era allora nel 1221, otto secoli fa, e i due frati erano stati inviati a Milano dallo stesso Domenico di Guzmán per dare vita anche nella grande città lombarda a una prima comunità del nuovo ordine mendicante. E, nonostante le critiche condizioni in cui da diversi anni ormai versava l’antica basilica milanese, ai frati predicatori Sant’Eustorgio sembrava proprio il luogo ideale dove fondare il loro convento.

Qui, secondo la tradizione, l’apostolo Barnaba aveva iniziato la sua predicazione, convertendo i milanesi alla fede cristiana. Qui il vescovo Eustorgio aveva riposto le reliquie dei Magi, portandole dal lontano Oriente. Un luogo simbolo, dunque. Una radice salda su cui innestare i nuovi germogli della spiritualità domenicana. Senza dimenticare ragioni forse più pratiche, ma non per questo meno importanti: Sant’Eustorgio sorgeva fuori Porta Ticinese, all’inizio della strada che conduceva a Pavia, sede universitaria che molti domenicani ben presto avrebbero frequentato, come alunni e come docenti.

D’altra parte, se per i monaci benedettini il monastero aveva costituito il loro stesso universo, un luogo chiuso in cui pregare e lavorare lontani dal mondo per essere più vicini a Dio, per i frati domenicani il convento rappresentava invece la base da cui partire per predicare agli uomini e alle donne dei centri urbani. Una predicazione che doveva sempre essere supportata da una profonda cultura teologica, ragione per cui in ogni fondazione domenicana era presente un maestro di teologia e un direttore degli studi. Fuori dalla città, ma allo stesso tempo vicinissima a essa, la basilica eustorgiana rispettava dunque appieno i desideri di san Domenico.

San Pietro Martire, il testimone
Ma i domenicani non erano i soli a predicare in terra lombarda. Molte e diverse erano le voci che si levavano in quegli anni, frutto di un grande fermento sociale e di un diffuso desiderio di rinnovamento religioso. Voci rivoluzionarie ma «ortodosse», come quelle di Francesco d’Assisi e di Domenico di Guzmán, ma anche voci che contrastavano con l’insegnamento della Chiesa. «Covo di eretici», aveva detto Giacomo de Vitry a proposito di Milano negli anni in cui i domenicani giungevano nel capoluogo lombardo. E proprio ai frati predicatori di Sant’Eustorgio venne affidata, nel 1232, la Sacra inquisizione in Lombardia.

Il più celebre tra gli inquisitori del convento milanese fu Pietro da Verona. Raccontano i cronisti dell’epoca che folle immense accorrevano da ogni parte per ascoltarlo e che moltissimi furono gli eretici da lui convertiti, altrettanti quelli che egli «sconfisse». La Domenica delle Palme del 1252 fra Pietro annunciò solennemente che pochi giorni rimanevano per pentirsi a chi persisteva nell’errore. Alcuni membri della setta dei «Credenti» decisero allora di farlo tacere per sempre: assalito vicino a Barlassina mentre rientrava a Milano dopo aver predicato a Como, l’inquisitore domenicano fu ucciso con una roncolata in testa, e così verrà poi sempre raffigurato. Il suo corpo fu sepolto in Sant’Eustorgio, e da allora la basilica divenne meta di incessante pellegrinaggio. A meno di un anno dalla sua morte, Pietro fu proclamato santo da Innocenzo IV e il suo culto venne largamente diffuso sia dai domenicani che dal papato.

Predicatori, maestri, consiglieri
Tutto ciò fece di Sant’Eustorgio, già sul finire del XIII secolo, il convento più famoso e grande di Milano. Alcuni tra i domenicani più in vista, inoltre, furono chiamati quali cappellani, confessori e consiglieri di corte dai nuovi signori di Milano, i Visconti, che affidarono loro anche la prestigiosa cattedra di teologia del Duomo. Per non parlare della nobiltà ambrosiana, che fece a gara per collocare i propri mausolei, sempre più ricchi, accanto alla tomba di san Pietro da Verona.

Dei frati di san Domenico piaceva il parlare semplice e chiaro, capace di spiegare anche i passaggi più complessi della dottrina. Una predicazione che attingeva spesso da esempi della vita quotidiana e che rifuggiva, invece, dal racconto favoloso o miracolistico. Il convento di Sant’Eustorgio, d’altra parte, era diventato uno dei maggiori centri culturali non solo di Milano ma di tutta l’alta Italia, e la sua biblioteca una delle più ricche di codici e manoscritti.

Purtroppo però, come la storia spesso insegna, la ricchezza e la protezione dei “potenti” fu infine pagata a caro prezzo sul piano della spiritualità. I frati del convento di Sant’Eustorgio finirono con il dimenticare la scelta di povertà delle origini, l’umiltà raccomandata da Domenico. Due volte, sul finire del Trecento, Raimondo da Capua, generale dell’ordine e amico di santa Caterina da Siena, giunse a Milano per richiamare i confratelli alla regolare osservanza, ma invano. I domenicani milanesi si sentivano forti dei loro privilegi e della ricchezza della loro casa, e insuperbirono a tal punto da non voler più rispettare le regole di quella stessa famiglia a cui appartenevano. Un rifiuto che segnerà drammaticamente l’inizio di un’inesorabile decadenza.

Alle Grazie l’Osservanza (e il Cenacolo di Leonardo)
Santa Caterina da Siena aveva fortemente invitato i domenicani a rinnovarsi, spiritualmente e nei costumi. Anche in Lombardia alcuni conventi accolsero di buon grado quell’auspicio a tornare all’«osservanza» delle regole stabilite dal fondatore, ma non quello di Sant’Eustorgio a Milano.

I frati decisi ad abbracciare la «riforma» nel capoluogo lombardo cercarono dunque la sede adatta per avviare una nuova comunità e la trovarono grazie al capo delle milizie di Francesco Sforza, il conte Vimercati, che nel 1463 donò loro un terreno a Porta Vercellina, dove già esisteva un oratorio dedicato alla Vergine.

Forte del sostegno ducale, il convento di Santa Maria delle Grazie crebbe rapidamente e anzi si avviò a diventare uno dei luoghi più significativi di tutta l’Italia rinascimentale. Quando poi Ludovico il Moro scelse la chiesa come mausoleo degli Sforza, vi chiamò a lavorarvi uno dei migliori architetti dell’epoca, il Bramante, mentre Leonardo dipingeva nel refettorio il suo straordinario Cenacolo.

La vita religiosa alle Grazie fu subito intensa, guidata da personalità di grande carisma e capacità. In questo convento domenicano dell’Osservanza nel corso dei secoli operarono e si formarono beati, docenti universitari, teologi, cardinali, maestri generali dell’ordine. Fra loro, in quest’anno giuseppino voluto da papa Francesco, ricordiamo qui soltanto il milanese fra’ Isidoro Isolani, che gli inizi del Cinquecento fu autore del primo trattato teologico su san Giuseppe.

Nel 1799 le soppressioni napoleoniche colpirono anche questo complesso conventuale, che fu trasformato in caserma. Ma i frati predicatori furono richiamati in Santa Maria delle Grazie nel 1904 dal beato cardinal Ferrari, che ancor oggi sono presenza viva e vitale per la città di Milano, dal punto di vista spirituale, ma anche culturale.

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