Paolo Trionfini, direttore dell’Istituto per la storia dell’Azione cattolica e del movimento cattolico in Italia, rilegge la figura e l’opera di Montini. E osserva: «Nella sua visione, la Chiesa si apre al mondo attraverso il dialogo. Questa comunità cristiana che si apre, si fa prossima, cammina nella storia è, mi pare, quella stessa ‘Chiesa in uscita’ che ci ricorda con forza Papa Francesco».

di Gianni BORSA

paolo VI

«Montini è anche il Papa della Gaudete in Domino, l’esortazione apostolica dedicata alla gioia dell’essere cristiani. Questa è una chiave interpretativa della figura di Paolo VI che dovrebbe essere riscoperta». Paolo Trionfini, direttore dell’Istituto per la storia dell’Azione cattolica e del movimento cattolico in Italia, intitolato a Paolo VI, sottolinea alcuni tratti meno noti, “persino sottovalutati”, del pontefice (Concesio, Brescia, 1897 – Castel Gandolfo, 1978) che sarà beatificato il prossimo 19 ottobre. «Un uomo di grande fede – spiega lo storico nella sede dell’Istituto, alla Domus Mariae di Roma -, pienamente orientato alla evangelizzazione, capace di misurarsi con la modernità».

Professore, dopo la canonizzazione di Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II, ecco un altro pontefice indicato come modello di fede. C’è un filo rosso che lega queste tre personalità apparentemente così diverse tra loro?
C’è più di un tratto comune fra questi tre Papi. Ma il primo che sottolineerei è la loro tensione a rendere la Chiesa veramente universale, cattolica a tutto tondo. Questa vocazione universale si traduce nell’impegno a portare il Vangelo a tutte le genti, in ogni angolo del mondo. Questo è oggi un aspetto che viene dato per scontato, ma in realtà è il compimento di un lungo percorso, che passa fra l’altro dal Concilio Vaticano II. Non dimentichiamo, ad esempio, i viaggi, dall’alto valore simbolico, compiuti da Paolo VI in Terra Santa, in India, all’Assemblea delle Nazioni Unite a New York. Fu il primo Papa, dopo la fine del potere temporale, ad uscire dai confini della nazione italiana. Fu lui per primo, viaggiando fuori dall’Italia, a baciare la terra del Paese che stava per visitare.

E un tratto peculiare di Giovanni Battista Montini?
Direi che la Chiesa di Paolo VI – proprio per il periodo attraversato – è chiamata a fare i conti con una modernità arrembante; vi si misura senza rifuggirla, cercando di comprendere quel processo di secolarizzazione che prende la rincorsa negli anni del suo pontificato. Ci si rende progressivamente conto che la Chiesa stessa non è più, per molte persone e popoli, un punto di riferimento assoluto e condiviso. In tale quadro, emerge il suo profilo di cristiano e di uomo di cultura….

Cosa intende con questa osservazione?
Montini ha sempre inteso e vissuto la cultura non come qualcosa di accademico, o di astratto, ma nella sua concezione più piena, come un tutt’uno con la vita. È pure un elemento caratteristico della sua spiritualità. Già quando era assistente centrale della Fuci raccomandava agli assistenti degli universitari cattolici di ‘ben seguire la formazione dei propri amici e allievi per tendere all’unità spirituale del giovane’. Il futuro pontefice si è sempre posto al servizio di tutto l’uomo, nella sua pienezza, e di tutti gli uomini. Tanto che nell’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, del 1975, osserva che «il dramma della nostra epoca è la frattura tra vangelo e cultura». Da qui l’impegno a promuovere una cultura che si ispira al Vangelo e attraversa la vita umana, la arricchisce, la rende strumento di comprensione fra gli uomini. Montini in età giovanile contribuì a far conoscere Maritain in Italia e non a caso al termine del Concilio lancerà un messaggio alle donne e agli uomini di pensiero, affidandolo allo stesso filosofo francese, dove ancora una volta rimarca il legame tra vita, fede e cultura, tra fede e ragione, come dirà poi Papa Benedetto.

Si accennava ai viaggi di Paolo VI fuori dall’Italia. Una novità assoluta per quei tempi, che poi diventerà una nota caratteristica di Papa Wojtyla.
È proprio così. Ma, guardando più a fondo, vi si ritrova quell’impegno all’evangelizzazione che segna l’intera sua esistenza, e dunque il suo pontificato. Montini riverserà questa ansia missionaria nell’approccio al Concilio, per la prosecuzione del quale, dopo la scomparsa di Giovanni XXIII, Paolo VI avrà un ruolo determinante. Egli contribuì a delineare quella figura di Chiesa che ritroviamo nella Lumen gentium e nella Gaudium et spes, e che il Papa bresciano prefigura nella Ecclesiam suam, promulgata nel 1964, a Concilio aperto. La Chiesa – è la sua visione – si apre al mondo attraverso il dialogo. Questa comunità cristiana che si apre, si fa prossima, cammina nella storia è, mi pare, quella stessa ‘Chiesa in uscita’ che ci ricorda con forza Papa Francesco. Un altro aspetto dell’attenzione di Paolo VI da recuperare è il rapporto con le altre confessioni cristiane, alimentato anche da gesti con un alto valore simbolico, come la revoca della scomunica millenaria alla Chiesa d’oriente.

Quale la visione montiniana del laicato?
Sostanzialmente si può dire che egli vede il laicato come soggetto attivo, e non come ‘oggetto’, della missione ecclesiale. Dunque i laici sono chiamati alla corresponsabilità. Montini matura tale visione fin dagli anni alla Fuci, poi alla Segreteria di Stato vaticana, quindi nella stagione dell’episcopato ambrosiano. Paolo VI insisterà, nella fase di prima ricezione del Concilio, sul ruolo dei laici, la cui ‘indole secolare’ li pone nel mondo per testimoniare il Vangelo nella quotidianità, nella vita familiare, nella politica, nella cultura, nel lavoro… Il mondo è visto come realtà teologica, nella quale Dio opera per la salvezza dell’umanità.

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