Era l'11 settembre 1886. Il fondatore dei salesiani era già stato in altre occasioni nel capoluogo lombardo, ma ora, ormai anziano e malato, tornava per l'ultima volta per incontrare l'arcivescovo Nazari di Calabiana, suo amico piemontese. Fu un momento di festa e commozione.
Nel 1886 don Giovanni Bosco aveva 71 anni. Non era molto anziano, secondo lo standard di oggi, ma i suoi stessi collaboratori ne constatavano impotenti il degrado fisico, per cui il sacerdote torinese appariva ormai «debole, cadente e quasi sfinito», stremato da una vita condotta senza risparmio, interamente dedicata a Dio e ai suoi ragazzi. Ma la lucidità e la determinazione erano quelle di sempre, e, nonostante il parere contrario dei medici, il santo aveva deciso: voleva andare ancora una volta a Milano.
A Milano già nel 1850
Nel capoluogo lombardo don Bosco era già stato in diverse occasioni. La prima volta nel 1850, quando era stato invitato a predicare nella parrocchia di San Simpliciano, e per spostarsi dal Piemonte alla Lombardia serviva ancora il passaporto: allora Giovanni si era fermato quasi tre settimane e ne aveva approfittato per studiare da vicino l’organizzazione ambrosiana degli oratori. Poi vi era tornato a più riprese per incontrare amici e benefattori, laici e religiosi, anche per verificare la possibilità di aprire una casa salesiana all’ombra della Madonnina. Quel sogno, del resto, non si era ancora realizzato e certamente don Bosco desiderava ardentemente di recarsi a Milano, pur sapendo di affrontare una prova assai impegnativa per le sue condizioni di salute, per dimostrare la sua vicinanza ai suoi premurosi cooperatori meneghini.
L’amicizia con monsignor Nazari
Ma la prima e vera ragione di quel viaggio estremo era quella di portare la sua personale solidarietà e il suo autorevole sostegno all’allora pastore della Chiesa ambrosiana: monsignor Luigi Nazari dei Conti di Calabiana, amico di lunga data. L’arcivescovo di Milano, infatti, nonostante fosse dotato delle migliori qualità che ne facevano una degna guida sulla cattedra di sant’Ambrogio e di san Carlo, in quel frangente storico post-unitario si trovava sottoposto a un tiro incrociato: da una parte attaccato dai circoli massonici e anticlericali; dall’altra contestato da quei cattolici intransigenti che non gli perdonavano la sua posizione «conciliatorista» e i suoi noti sentimenti patriottici.
Giovanni Bosco e Luigi Nazari di Calabiana – il primo più giovane di sette anni del secondo – si erano conosciuti a Torino nel convitto ecclesiastico di San Francesco fondato da don Luigi Guala e poi diretto da un santo sacerdote, Giuseppe Cafasso. La loro estrazione sociale era molto diversa, essendo Giovanni nato in una modesta famiglia contadina fra le colline astigiane (orfano di padre a soli due anni), mentre Luigi era il rampollo di uno dei più nobili casati piemontesi (nominato vescovo di Casale Monferrato nel 1847, a 39 anni, e poco dopo senatore del Regno di Sardegna): ma fra i due uomini di Chiesa, autentici «operai nella vigna del Signore», nacque subito una solida intesa, alimentata dalla stima reciproca.
Il saggio suggerimento
Fin dall’apertura dell’oratorio di Valdocco, infatti, monsignor Nazari affidò a don Bosco alcuni giovani della sua diocesi. E quando il sacerdote avviò una nuova opera salesiana a Mirabello fu proprio il vescovo di Casale a spianargli la strada, intervenendo presso l’autorità civile per evitargli ogni intralcio. Con la nascita del nuovo Regno, e l’inasprirsi della «questione romana», i rapporti fra lo Stato italiano e la Santa Sede si fecero assai problematici.
Papa Pio IX si trovava in difficoltà nella nomina dei nuovi vescovi per il veto che il governo manifestava davanti ai nomi non graditi. In quel contesto don Bosco godeva ormai della piena fiducia del pontefice per le questioni sociali e politiche più delicate, essendo a sua volta ascoltato dal re e dai ministri e ricoprendo, di fatto, un importante ruolo di mediatore fra lo Stato e la Chiesa. Fu proprio lui, probabilmente, a suggerire monsignor Nazari di Calabiana per la diocesi di Milano (come lo stesso vescovo di Casale gli rimproverò amabilmente durante la visita a un istituto salesiano).
Tre giorni intensi
Don Bosco giunse a Milano in treno l’11 settembre 1886, accolto da una folla numerosa e da molti sacerdoti ambrosiani. Fra questi c’era anche don Achille Ratti, allora trentenne, già studioso apprezzato (ma non ancora cooptato in quella Biblioteca Ambrosiana di cui diventerà prefetto): sarà lui, quando salirà al soglio pontificio col nome di Pio XI, a dichiarare prima beato e poi santo don Giovanni Bosco, avendolo conosciuto personalmente, fin dalla frequentazione del suo oratorio a Torino.
L’incontro tra il fondatore dei salesiani e l’arcivescovo di Milano avvenne in Curia (ricordato anche da un’epigrafe, fatta apporre cinquant’anni dopo dal cardinal Schuster): don Bosco, sfinito com’era, dovette essere portato su per lo scalone a braccia, ma tutti i presenti ne colsero «la vivacità dei suoi occhi e la lucidità dello spirito». I due amici si abbracciarono fraternamente e con commozione, scambiandosi la benedizione. Poi conversarono a lungo, rievocando ricordi passati e vicende recenti, sempre in dialetto piemontese.
Furono tre giorni intensi per don Bosco, che partecipò alla conferenza dei cooperatori salesiani lombardi e alle celebrazioni nella basilica di Santa Maria delle Grazie, circondato dall’affetto e dall’ammirazione di tantissima gente, con il manifestarsi anche di segni prodigiosi: molti, del resto, già lo ritenevano santo.