Nella chiesa milanese dei gesuiti, un'installazione temporanea di arte sacra dell'artista americano, con opere appartenenti alla Collezione Panza di Biumo.

di Luca FRIGERIO

San Fedele Simpson

Luce che squarcia le tenebre, illuminando l’universo creato. Luce che nasce, risplendendo in una grotta di Betlemme, a guidare i cercatori di Dio. Luce che abbaglia, per rendere ciechi con gli occhi e vedere col cuore, come sulla via di Damasco. «Io sono la luce del mondo», dice il Signore. Epifania luminosa che mai più si spegnerà.

Sì, è una pittura di luce quella di David Simpson. Tre tele quadrate di quasi due metri di lato ciascuna, collocate nel presbiterio della chiesa di San Fedele a Milano, appese sopra il coro, sulla parete absidale. Tre pannelli monocromi, di tre tinte diverse: oro, rosso, azzurro. Tre presenze che inquietano, affascinano, interrogano. Discrete, ma inevitabili. Silenziose, eppure eloquenti. Come alle querce di Mambre, come sulla vetta del monte Tabor.

Lo sguardo di chi entra nel tempio ambrosiano dei gesuiti si fa dapprima curioso della novità. Poi, facilmente, indugia perplesso sulle lucide superfici, cercando un rassicurante appiglio che tuttavia non c’è. Infine, se ha abbastanza passione, se ha sufficiente intuizione, s’illumina come in un mistico rivelarsi. Dell’oro: che è la manifestazione del divino, dell’eternità del Padre, della bellezza incorruttibile. Del rosso: che è il simbolo del sacrificio del Figlio, del sangue versato sulla croce, ma anche della sua imperitura regalità. Dell’azzurro: che è segno di infinito, soffio dello Spirito, azione inarrestabile dell’amore che crea. Trinità di colore che vibra nell’aria, pulsando nell’anima.

Un’installazione temporanea, questa nella chiesa di San Fedele, ma che forse potrà presto farsi permanente, accanto alla Deposizione del Peterzano che educò il Caravaggio, vicino alle ceramiche smaltate di Lucio Fontana. Allestito già nell’ottobre scorso in occasione della mostra che il centro culturale milanese ha dedicato alla memoria di Giuseppe Panza da Biumo, generoso quanto lungimirante collezionista – alla cui raccolta appartengono, appunto, anche questi tre grandi monocromi, realizzati nel 1993 -, il trittico monocromatico di Simpson oggi torna ad essere culmine della nuova rassegna che chiude la serie di eventi ispirati all’arte cinematografica di Andrej Tarkovskij (come segnaliamo nel box qui a fianco). Per la nostalgia dell’eterno che le pellicole del regista russo comunicano, nella ricerca di spiritualità che i suoi personaggi testimoniano.

Che è poi la stessa sensibilità che ritroviamo nella ricerca di David Simpson, appunto. Classe 1928, esponente storico dell’espressionismo astratto, l’artista americano lavora con colori acrilici speciali, composti da titanio e cristalli di mica. Una pittura che crea effetti ottici simili a quelli dell’iridescenza, cangiante al mutare della luce, variabile a seconda dell’angolo di visuale. Monocromi, certo: e che tuttavia sembrano contenere mille tonalità diverse, innumerevoli sfumature differenti. Tele fisse, è evidente: ma le cui superfici appaiono in continuo movimento, animate da un dinamismo senza fine. Immagini inafferrabili, come inafferrabile è il divino, quando vogliamo ingabbiarlo, ridurlo ai nostri schemi, imprigionarlo nelle nostre logiche.

Simpson, come già Tarkovskij nel cinema, è una sorta di moderno iconografo che cerca di rivelare il mistero attraverso la sua pittura, dando visibilità all’invisibile. «E il Verbo si fece carne», cioè materia. Quella materia pittorica stesa con gestualità paziente, quasi liturgica, come mormorata preghiera. Ma il resto rimane inesprimibile, esperienza che si può tradurre in una dimensione di bellezza, presenza di quel già e non ancora da evocare attraverso la luce e il colore. L’infinito che si specchia nel finito: incontro nella storia con il Dio che salva.

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