Il grande pittore del Cinquecento viene celebrato con una mostra a Brescia, ma una delle sue opere più importanti si trova in terra ambrosiana. Un ciclo ad affresco realizzato nel 1566, a pochi mesi dall'arrivo a Milano di san Carlo Borromeo.
di Luca
FRIGERIO
Vasari, uno che di arte e di artisti se ne intendeva, lo riteneva il miglior pittore della sua città, nella seconda metà del Cinquecento. Il pittore è Lattanzio Gambara, la città è Brescia: una “piazza” dove i bravi “dipingitori” certo non mancavano, all’epoca, e primeggiare fra questi era la più evidente dimostrazione di un talento eccezionale. Eppure Gambara non ha riscosso lo stesso entusiasmo presso le generazioni successive, così che il suo nome è rimasto in qualche modo in ombra presso il grande pubblico, noto e apprezzato, per lo più, soltanto dagli addetti ai lavori, cioè critici e storici dell’arte. Ma oggi è giunto finalmente il momento di riportare l’attenzione su questo protagonista della pittura italiana del XVI secolo, grazie a una mostra-evento che la sua città natale gli dedica («Il senso del nuovo», al Museo di Santa Giulia, fino al prossimo 20 febbraio), quasi come un dovuto “risarcimento” alla memoria, facendolo riscoprire a una più vasta platea di cultori e di appassionati.
Da parte nostra, allora, cogliamo l’occasione per ricordare che una delle opere più importanti del bresciano Lattanzio Gambara, se non addirittura il suo capolavoro, per qualità e vastità, si trova proprio in terra ambrosiana. Si tratta, infatti, della decorazione dell’abside della collegiata di Santo Stefano a Vimercate: una meraviglia che il recente restauro ha riportato in piena luce e che, al di fuori della cerchia brianzola, costituisce un’autentica sorpresa.
La storia del protomartire
Il grandioso ciclo ad affresco rappresenta la storia del protomartire secondo il racconto degli Atti degli Apostoli, dalla condanna da parte del Sinedrio, alla sua lapidazione e alla sua sepoltura: il tutto concepito da Gambara con un impianto di straordinario effetto scenografico, innovativo e sorprendente, che si dipana su tutta l’ampia superficie absidale senza interruzioni, come uno straordinario piano sequenza di impatto cinematografico.
La scena principale è quella del martirio di Stefano, collocata al centro del catino absidale e sovrastata dalla maestosa visione celeste, con la Trinità e la Vergine attorniati da un corteo di angeli che fluttuano, come danzando, tra le nubi dell’Empireo. La luce zenitale che scende sul martire, rendendogli gloria per la sua testimonianza fino al dono della vita, sembra perfino abbagliare i carnefici, che appaiono come «pietrificati» nella loro violenta gestualità, proprio come i sassi che stanno per scagliare.
Il colpo d’occhio è impressionante e infatti il lavoro, per la sua maestria, fu molto lodato dai contemporanei. Purtroppo, però, agli inizi dell’Ottocento venne collocato il nuovo altare neoclassico: una pregevole opera dell’acclamato Leopoldo Pollack che tuttavia ha compromesso pesantemente la fruizione dello spettacolare affresco di Lattanzio Gambara, nascondendone parzialmente la visione dalla navata della chiesa e, di fatto, impedendone quella comprensione simultanea delle sue diverse parti che ne costituisce invece il suo punto di forza, virtuosistico saggio di illusionismo pittorico.
Fu anche per questo, evidentemente, che il ciclo vimercatese cadde in una sorta di oblio, fino a perdersi la memoria del suo autore: già nel Settecento, infatti, lo si credeva opera di Giulio Campi, il cui stile, del resto, riecheggia nella pittura di Lattanzio, che del cremonese fu allievo.
La scoperta della firma
La verità fu ristabilita solo nel corso dei restauri del 1988, quando l’allora sovrintendente Germano Mulazzani individuò la firma di Gambara e la data di esecuzione: 1566. In questi ultimi anni, poi, ricerche d’archivio hanno ricostruito l’intera vicenda della commissione di quest’opera, che si deve alla locale confraternita della Concezione, legata all’amato santuario mariano di Vimercate, e che all’epoca poteva contare sul sostegno e il contributo di alcune delle più illustri famiglie della nobiltà milanese e briantea (per un approfondimento, su questi affreschi, e più in generale sull’antica pieve di Santo Stefano, si invita a consultare il bel volume pubblicato nel 2008 dalla cooperativa libraria “Il gabbiano”).
Il 1566 è anche l’anno nel quale san Carlo, da appena un anno alla guida della Diocesi di Milano, venne a Vimercate in visita pastorale. Non fu lui, quindi, a chiamare direttamente il pittore bresciano in terra ambrosiana. Ma l’arcivescovo Borromeo conosceva bene i feudatari della cittadina brianzola, i conti Secco, tanto che convinse proprio Ludovico, uomo di spiccate virtù e di grande fede, ad assumerne la prevostura.
E tuttavia l’arte di Lattanzio è davvero borromaica, incarnando quei dettami indicati dal Concilio di Trento e poi ribaditi da san Carlo stesso durante il suo episcopato. Una pittura “decorosa”, priva di inutili orpelli o addirittura di elementi «fuorvianti»: aderente al testo biblico e capace di suscitare sentimenti di devozione nei fedeli che la contemplano. Come Gambara riuscì a fare in Santo Stefano a Vimercate, appunto: al livello più alto e con ammirevole ingegno.