L'artista, nella seconda metà del Cinquecento, era celebrato tra i migliori: eppure di lui sembrava essersi perso ogni ricordo... Il recupero della splendida pala nella chiesa milanese ha permesso oggi di fare il punto su questa significativa pagina di storia e arte in terra ambrosiana.
di Luca
Frigerio
Strano destino, ma non insolito, quello di Girolamo Figino. Che per i contemporanei, alla metà del Cinquecento, era «pittore eccellentissimo», «nobilissimo non meno per bontà di costumi e grandezza d’animo», «ingegnosissimo» e «di molte altre gran doti a lui dal ciel concesse»… Ma la cui memoria, poi, si era rapidamente eclissata, tanto da essere del tutto dimenticato dalle successive generazioni, e le sue opere ignorate o attribuite ad altri autori. Oggi, finalmente, ecco l’attesa e meritata riscoperta. In seguito a studi avviati una ventina di anni fa. E grazie, soprattutto, al recentissimo restauro di una meravigliosa pala d’altare della sacrestia monumentale della chiesa di San Marco a Milano, che si è rivelata, appunto, straordinario capolavoro del negletto, e ritrovato, artista ambrosiano.
L’evento è di quelli esemplari. Che parte dalla generosità di alcune fedeli (le sorelle Zerbi) che offrono al parroco (monsignor Gianni Zappa) la possibilità di prendersi cura di un bene prezioso della comunità (e dell’intera collettività), con un intervento che non si è limitato soltanto al suo recupero «all’originario splendore» (che è già, comunque, cosa meritoria e lodevole), ma che è diventato l’occasione per una serie di indagini e ricerche di alto profilo che ha portato a importanti e inedite scoperte, a livello storico e artistico, ora confluite in un volume curato da Francesco Frangi e Paola Strada (Scalpendi editore). Un lavoro ancor più significativo se si considera come esso si sia svolto nell’attuale periodo di pandemia, con tutte le conseguenti difficoltà e restrizioni, ma che oggi, proprio in quegli smaglianti colori riemersi, si fa segno di fiduciosa speranza.
La grande tela rappresenta la Sacra Famiglia inserita in un contesto naturale, quasi a evocare le atmosfere del riposo durante la fuga in Egitto, con un vescovo che si prostra ad adorare il Bambino Gesù, che lo benedice sorridente. In assenza di particolari attributi iconografici è difficile individuare chi sia il santo prelato, munito di pastorale e mitra, in passato identificato con Agostino («padre» dei religiosi che risiedevano nel convento milanese di San Marco) oppure con Siro (primo vescovo di Pavia e suo patrono).
L’opera reca la data «1569», sotto la figura della Vergine, accanto alle margherite, e quindi fornisce un elemento sicuro relativamente alla sua esecuzione. Ben diverso, invece, è il discorso riguardo al suo autore. Già nelle guide settecentesche delle chiese di Milano, infatti, la pala, sempre lodata per la sua bellezza, era assegnata a uno dei celebri fratelli Campi (Antonio o, più frequentemente, Bernardino), cremonesi d’origine, ma ben presenti nella Milano della metà del XVI secolo: un’attribuzione che era confermata anche da una scritta che si è rivelata apocrifa, e quindi eliminata nel corso dell’ultimo restauro.
Proprio il confronto stilistico ha potuto avvicinare questo dipinto a un piccolo, ma prestigioso corpus di opere che gli studiosi attualmente fanno risalire alla mano di Girolamo Figino, appunto: da una «Madonna del velo col Bambino e san Giovannino» conservata nella basilica di Sant’Ambrogio a Milano a una spettacolare «Assunzione di Maria in cielo» nella collezione della Banca popolare di Milano, fino all’incantevole «Sacra conversazione» oggi nei musei statali di Berlino, ma proveniente dalla parrocchiale di Casatenovo.
Nato a Milano attorno al 1520, Girolamo Figino era imparentato con Francesco Melzi, il più fedele dei discepoli di Leonardo da Vinci, che gli fu quindi a sua volta maestro. Il nostro pittore, del resto, fu sempre un alfiere della maniera leonardesca, come ben si vede anche nella composizione della «Sacra famiglia» di San Marco: dove, tuttavia, la dolcezza e l’espressività delle figure sembrano derivare più direttamente da Raffaello, altro suo sicuro modello (si noti, in particolare, come la posa pensosa di san Giuseppe richiami il volto di Eraclito, alias Michelangelo Buonarroti, nella «Scuola di Atene»).
In vita fu elogiato come pochi altri artisti, per i molteplici talenti e la sua poliedricità davvero «vinciana»: si dice, infatti, che fosse non solo pittore, ma anche miniatore, intagliatore, musicista, poeta, cantore. Al punto che Giovan Paolo Lomazzo, con quel sarcasmo che solo gli amici si permettono, gli aveva dato il soprannome di «Fatuttonulla».