La magnifica Pala, dipinta dall’Urbinate mentre affrescava le Stanze vaticane di Giulio II, è oggi esposta a Palazzo Marino nell’ormai tradizionale mostra natalizia, fino al prossimo 12 gennaio. Una pittura fra terra e cielo.
di Luca FRIGERIO
Formidabili, quegli anni. Quelli cioè attorno alla prima decade del XVI secolo, cinque secoli fa, all’apice dell’arte rinascimentale. Quando, pressoché contemporaneamente, Leonardo da Vinci dava le ultime pennellate alla sua Gioconda, Matthias Grünewald poneva mano al suo visionario altare di Isenheim, Michelangelo Buonarroti scendeva dai ponteggi della Cappella Sistina mentre Raffaello Sanzio proseguiva ad affrescare le Stanze del palazzo Apostolico Vaticano…
E trovava il tempo, l’Urbinate, anche per altri, nuovi straordinari capolavori. Come la Madonna di Foligno, ad esempio, gemma preziosa della Pinacoteca Vaticana, ma oggi presentata a Milano, nell’ormai tradizionale e attesissima esposizione natalizia presso la Sala Alessi di Palazzo Marino. Un’opera bellissima, dove l’atmosfera sognante e umanissima a un tempo mostra la Vergine svelarsi nel fulgore della sua divina maternità, dove il paesaggio naturale si fonde e si trasfigura sulla soglia dell’infinito…
L’opera venne appunto commissionata nel 1511 da Sigismondo de’ Conti, raffinato umanista e attento storiografo, segretario di cardinali e di papi, e in ultimo proprio di quel Giulio II che al giovane Raffaello aveva chiesto l’impresa di decorare i suoi ambienti in Vaticano. Lo vediamo in basso a destra, l’anziano diplomatico ormai ottantenne, in ginocchio, con le mani giunte in preghiera, vestito della rossa cappa bordata di ermellino del cubiculario pontificio. Presentato alla Madonna e al Bambino, con paterna benevolenza, da quello stesso san Gerolamo che fu anch’egli segretario di un papa (Damaso, nel IV secolo), traduttore della Bibbia in latino, e quindi patrono per elezione di letterati e scrittori. Alle loro spalle, fa capolino il leone, inseparabile compagno dell’autore della Vulgata, dopo che questi gli tolse una spina dalla zampa, durante il suo eremitaggio nel deserto.
Sulla parte sinistra della pala, invece, troviamo un san Giovanni Battista scapigliato e prestante, che fissando il suo sguardo risoluto su noi spettatori ci invita ad andare oltre, ad alzare i nostri occhi al cielo e a posarli sul Cristo. Su quel Dio-Bambino fattosi uomo per amore, che il Precursore ci indica a dito, la bocca ancora socchiusa in quella che sembra una mormorazione, ed è invece il grido di chi annuncia la salvezza: «Ecco l’agnello di Dio che toglie il peccato del mondo». Come già contempla Francesco, rapito in mistica estasi, lui che è l’alter Christus, il santo che sulla Verna ha ricevuto le stimmate del Crocifisso.
Francescani, del resto, erano i rettori di Santa Maria in Aracoeli a Roma, la chiesa dove la Madonna di Raffaello venne collocata e dove lo stesso Sigismondo volle essere sepolto. Un luogo assai caro alla cristianità romana, perché sorto là dove, secondo la tradizione, la Vergine apparve all’imperatore Augusto per rivelare anche al mondo pagano la venuta al mondo del Salvatore, l’“ara del cielo”, appunto. E il luogo dove la magnifica pala rimase fino al 1565, quando una nipote del segretario curiale non decise di portarla con sé nel Monastero delle Contesse a Foligno. Dove a sua volta venne requisita dagli ufficiali napoleonici per essere destinata al museo dei musei, il Louvre di Parigi, e che solo la caduta di Napoleone impose di restituire allo Stato Pontificio, nel 1816.
Foligno, già. La città umbra dove lo stesso Sigismondo de’ Conti era nato. E alla quale, del resto, era sempre rimasto legato, anche quale cancelliere per investitura papale. Foligno che vediamo ritratta sullo sfondo del dipinto, eppure in bella evidenza, sui cui edifici – forse proprio quelli di proprietà del nostro umanista – s’intravede un rosso bagliore: un meteorite infuocato, o forse una cannonata di una delle prime bocche da fuoco, armi terribili proprio perché ancora poco usuali in quell’inizio del XVI secolo. In ogni caso, un grave pericolo scampato, che è poi all’origine di questa pala, che altro non è dunque, che un grande e maestoso ex voto. Come ricorda l’angioletto al centro, in basso, che reca una tabella oggi vuota, senza parole. Così che a ognuno di noi, spettatori e fedeli, sia come data la possibilità di riempire quello spazio di segrete invocazioni.
Perché lassù c’è lei, la Madre, la Donna apocalittica ammantata di luce, a offrirci il Figlio che è già il sole che sorge a rischiarare le genti, attraverso il velo di angeli soffici come nuvole, di serafini umidi come la pioggia che cade a far germogliare la terra. Terra sulla quale si distende l’arcobaleno della pace ritrovata dopo il diluvio, della nuova alleanza fra Dio e l’uomo, ponte celeste d’amore fra la creatura e il suo Creatore. «Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà»: è l’augurio, ancora una volta, per il nostro Natale.