Ricavato in una grande grotta naturale tra i monti della bergamasca, era il santuario più amato da papa Giovanni, «perché non l’ha fatto la mano dell’uomo, ma Dio stesso». Domenica la visita dell'arcivescovo Delpini

di Luca FRIGERIO

Valle Imagna

Lo sguardo si perde, nell’ampia, profonda grotta della Cornabusa, in Valle Imagna. Si stenta a crederlo, ma davvero questo è un santuario mariano: niente colonne ma stalattiti, niente marmi ma pareti di roccia, niente organo ma il suono scrosciante di una sorgente. Tutto è diverso, tutto è nuovo. Le proporzioni a cui siamo abituati, le simmetrie, le volte, le navate o le campate che ci sono familiari qui sembrano non avere più senso.

Corna-busa”, ovvero montagna bucata, apertura nella roccia. Una definizione dialettale, un nome semplice, immediato, come semplice e grandioso è questo luogo dedicato alla Vergine, dove oggi si reca in pellegrinaggio anche l’arcivescovo di Milano, monsignor Mario Delpini, presiedendo la celebrazione eucaristica alle ore 11, e dove per tutto l’anno giungono i devoti della bergamasca, come anche numerosi fedeli ambrosiani.

Ai giorni nostri vi si arriva con una comoda strada, ma in passato non era così. Situata a mezza costa, circondata da una fitta macchia d’arbusti e da irti crepacci, la grotta della Cornabusa, nel territorio di Sant’Omobono Terme, era per i pellegrini una piccola, grande conquista: l’avvicinarsi era lento, meditato, quasi una processione, solitaria o comunitaria che fosse. Resta, oggi come allora, lo stupore della scoperta, la meraviglia di fronte a un prodigio della natura che gli uomini hanno voluto rivestire di nuova sacralità.

Diciamo subito che chi di un simile luogo volesse conoscere origini certe, date, fatti e avvenimenti, rimarrebbe deluso. Il santuario della Madonna della Cornabusa, in verità, non sembra essere fatto per carte e documenti d’archivio. La sua storia la si legge sulla nuda pietra, la sua memoria è nella preghiera incessante di generazioni e generazioni di fedeli. E se in tanti secoli nulla di eclatante vi è forse accaduto, si ripete quotidiano il miracolo di una fede grande, di un dialogo tenero e ininterrotto tra la Madre e i suoi figli.

Si capisce allora come non sia facile sapere come, quando e perché questa grotta fu “trasformata” in chiesa. Forse da sempre. Le cronache medievali narrano di come la Valle Imagna, secondo una destino comune a molte parti di Lombardia, fosse funestata da lotte tra fazioni diverse, tra principi e potenti, con un seguito scontato quanto doloroso di saccheggi, ruberie e ammazzamenti. E nella grotta della Cornabusa, come del resto in altre caverne della zona, la popolazione locale cercava scampo e salvezza, rifugiandovisi nei momenti di maggior pericolo e sventura.

Un giorno, si era agli inizi del XV secolo (ma qui la cronaca lascia spazio alla voce popolare), una pastorella sorda e muta, riparatosi in quest’antro con il suo piccolo gregge, trovò tra le rocce una statuetta raffigurante la Vergine Addolorata, forse lì dimenticata da qualche devoto, o volutamente lasciata a vegliare in quella grotta. Fatto sta che la ragazzina, al colmo dell’eccitazione, corse in paese per gridare a tutti della sua inaspettata scoperta… Già, a “gridare”: perché miracolosamente la sua lingua si era sciolta, le sue orecchie si erano aperte.

Da allora quell’antico, prezioso simulacro mariano non ha più abbandonato la grotta della Cornabusa. A lei, alla Madre dolente che culla in grembo il corpo del Figlio morto in croce, si sono levati gli sguardi imploranti di tante generazioni, le mani giunte in preghiera di uomini e donne, con una grazia da chiedere, con un ringraziamento da offrire.

Perché la Valle Imagna fu ed è terra amata, ma non generosa, non ricca. I suoi figli hanno dovuto conquistarsi giorno dopo giorno il diritto di viverci, tenacemente, duramente. Molti hanno dovuto emigrare nei decenni passati: lasciare tutto, amici, affetti, montagne, per cercar fortuna, o soltanto per riuscire a sopravvivere, fuori della valle. Ma la Madonna della Cornamusa è sempre restata con loro, nei loro occhi, nel loro cuore. Una casa per chi non ha casa, o per chi ha dovuto abbandonare la sua.

Qua e là, nella grotta, un ciuffo verde spunta improvviso e caparbio tra le rocce. Piccole, tenere foglie che fanno fatica a crescere e svilupparsi, anelando alla luce, chiedendo vita. E sembrano il riflesso della nostra fragile fede, talvolta in balia di eventi più grandi delle nostre forze, spesso insicura, ma sempre desiderosa di nuova linfa.

Forse li avrà notati anche papa Roncalli, questi germogli che sembrano far corona all’immagine della Vergine tra le pietre. Perché san Giovanni XXIII era pellegrino assiduo alla Madonna della Cornabusa. Vi si ritirava per giorni, in solitudine, in preghiera. «È il santuario più bello che esiste», diceva con un sorriso sulle labbra: «Perché non l’ha fatto la mano dell’uomo, ma Dio stesso».

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