A cinque anni dalla morte del grande storico, e in occasione di vari eventi dedicati al suo lavoro e alla sua figura, riproponiamo un suo intervento su uno dei temi a lui più cari.
Luca Frigerio
Una città in fermento, da sempre. A Milano si pensa, si crea, si lavora. E di tutta questa laboriosità il capoluogo lombardo ne ha fatto un vanto, un marchio di fabbrica. In prima fila la classe imprenditoriale, gli industriali, il ceto dirigente. In una parola: la borghesia. Che resta comunque termine generico, sfuggente, inadatto, come tutte le sintesi estreme, a riassumere veramente l’essenza di un fenomeno o di una realtà.
Perché borghesi sono sì i proprietari dei mezzi produttivi, ma anche chi, pur non avendo tanto, condivide con questi aspirazioni e ideali, cercando di imitarne i modi di vita: è la media e piccola borghesia, quella dei liberi professionisti, degli artigiani, degli impiegati. Spesso con non poche differenze, se non altro di censo, con i primi della classe. In tutti i sensi.
Alla borghesia ambrosiana, illuminata, iperattiva, lungimirante, impegnata, munifica (secondo un vecchio e consolidato cliché), Milano dedica oggi un’ampia rassegna (si svolse a Palazzo Reale a Milano nella primavera del 2002, ndr), centrata tra l’Expo del 1881 e la contestazione del ’68. Meno di un secolo di vita lombarda, che passa tuttavia per fatti epocali, dalla industrializzazione della giovane Italia a due guerre mondiali, dal fascismo alla nascita della Repubblica.
E come buona parte delle mostre, anche questa è stata pensata per raccontare qualcosa che non c’è più. Perché “quella” borghesia, fatta di capitani di industria e di magnati, di eclettici personaggi e di self-made men meneghini, oggi sembra definitivamente tramontata. Del resto, già all’inizio degli anni Ottanta, ai tempi della Milano da bere, Gianni Agnelli aveva osservato come la patria dei Crespi e dei Pirelli non avesse più un establishment. Un giudizio per alcuni troppo severo, ma che in fondo scandalizzò pochi.
Abbiamo chiesto a uno storico, profondo conoscitore delle cose milanesi, di guidarci a capire un po’ meglio il passato e il presente di questa borghesia. E quello che ne ha fatto Giorgio Rumi è, per molti aspetti, un ritratto di famiglia davvero inedito.
Professor Rumi, da dove partiamo?
Dal Risorgimento, di cui la borghesia milanese fu protagonista. Gli imprenditori lombardi sanno che sono stati loro, con i loro capitali, la loro energia e la loro inventiva, a “fare l’Italia”, e sono fieri di essere la locomotiva del Paese. Tra il 1860 e il 1880 si trovano in una posizione molto vantaggiosa: sono contemporaneamente “padroni” in campo economico e in quello politico. Perché, non va dimenticato, l’industrializzazione a Milano e in Italia si fa in un regime censitario, in cui vota meno del dieci per cento della popolazione. Ma è proprio allora che inizia un progressivo allontanamento dalla politica attiva…
Perché? Cosa succede?
Alle idee e ai progetti, la borghesia milanese ben presto preferisce il “fare”: costruire, produrre, innovare… In tutto ciò lo Stato rimane ai margini ed è visto, al massimo, come un supporto. La borghesia meneghina crede molto in se stessa, tanto da diventare un ceto autoreferenziale: anche la nascita di università come il Politecnico o la Bocconi può essere considerata in questa prospettiva. Ma quello che non aveva previsto è l’irrompere sulla scena delle grandi masse, che da “oggetto” diventano “soggetto” della politica.
Siamo negli anni attorno alla Prima guerra mondiale…
Esattamente. Gli industriali e gli imprenditori che hanno fatto grande Milano e l’Italia, devono affrontare ora una nuova realtà, la democrazia, e si sentono a disagio in un Paese in cui non contano più soltanto le fortune familiari ma anche i grandi numeri. Avendo rinunciato alla politica per la ricerca del profitto, la borghesia ora non sa bene cosa fare.
Non è un caso, del resto, che il fascismo nasca proprio a Milano.
La classe padronale vede inizialmente nel fascismo uno strumento, e gli delega volentieri compiti di “igiene pubblica”, per contrastare socialisti, sindacalisti, repubblicani o cattolici “disturbatori”… La borghesia milanese pensa di potersi servire di Mussolini come di un burattino, credendo di potersene sbarazzare alla prima occasione. Ma è un’illusione: il “mostro”, una volta creato, non si fa certo manovrare e imbocca strade a dir poco impreviste per gli industriali ambrosiani
Quali, ad esempio?
Il massiccio intervento pubblico nell’economia, innanzitutto. E negli anni Trenta le grandi banche diventano dell’Iri: i soldi, in sostanza, li ha lo Stato. Anche l’idea delle corporazioni, cioè di una concertazione istituzionalizzata tra capitale e lavoro, non è certo gradita agli imprenditori. È una situazione che non determina una perdita di potere da parte della borghesia, ma che porta a una sua auto-emarginazione sempre maggiore dalla vita politica. È come se il ceto borghese abbia perso la propria identità, rinunciando a confrontarsi con le parti sociali e con la realtà.
Non fa una bella figura, insomma, la borghesia negli anni del fascismo.
Direi proprio di no. Le cito un episodio: gli industriali milanesi, a un certo punto, chiesero al duce l’onore di montare la guardia a Palazzo Venezia, in divisa e moschetto. I vecchi “padroni” di Milano non si sarebbero mai abbassati a tanto, né con Napoleone, né con gli Asburgo. Questo non vuol dire che la borghesia non diede il suo contributo alla crescita del Paese e allo sviluppo dell’economia italiana. Ma il ruolo storico di un ceto lo si giudica proprio nella grande politica. E a quella, invece, la borghesia abdicò quasi subito.
E cosa avviene nel dopoguerra?
La borghesia milanese continua a tenere una posizione defilata, e a delegare: la lezione del fascismo, evidentemente, non le è servita. Questa volta gli industriali pensano di “usare” la Democrazia Cristiana, soprattutto in chiave anti-comunista. Con una certa supponenza, credono di poter guidare e incanalare il movimento cattolico, ritenendosi forse più furbi e più intelligenti dei preti o di qualche “bigotto” di sacrestia. E ancora una volta dimostrano invece di avere scarso intuito politico, perché ci sono molti democristiani e molti esponenti dell’Azione cattolica che hanno progetti davvero innovativi, e che vanno in direzioni ben diverse dagli interessi della borghesia.
E per quanto riguarda Milano “capitale morale”?
È una questione che nasce già nei primi tempi dell’unità d’Italia. Milano ha la consapevolezza di essere il centro più moderno e più evoluto del Paese: si paragona a New York, che pur non essendone la capitale è la città più importante degli Stati Uniti. A Milano, si diceva un po’ altezzosamente, ci si occupa delle cose fondamentali: il lavoro e l’economia, i giornali e la cultura… La politica è vista come una scienza inferiore, come qualcosa di meno nobile che si può lasciare a Roma o a Torino. Un atteggiamento di superiorità che passa dalla nobiltà risorgimentale alla borghesia milanese, e che si rivelerà disastroso.
Ma a Milano “borghesia” ha fatto rima con “mecenatismo”?
La borghesia milanese ha sicuramente sostenuto numerose iniziative, dando il proprio contributo per fondazioni e musei. Ma tutto questo con molte esitazioni e troppe lacune. Diciamo che il mecenatismo ambrosiano è fatto soprattutto dai singoli: nulla a che vedere con la borghesia americana o quella svizzera, ad esempio, che hanno una consolidata tradizione in fatto di interventi di pubblica utilità.
Si può parlare di un tramonto della borghesia “storica”?
Credo proprio di sì. Da tempo, infatti, abbiamo assistito alla nascita di una nuova borghesia, fatta di tanti piccoli imprenditori. Milano oggi può vantare un numero sempre maggiore di professionisti bravi, capaci e brillanti. Ma qual è l’utile sociale di tutto ciò? La città che vantaggio ne deriva da questa eccellenza?
Già, pare proprio questo il nodo problematico per Milano.
Basta osservare con un po’ di attenzione le pagine cittadine dei quotidiani: da una parte si nota una continua retorica, un auto-incensarsi per i primati di Milano in tutti i campi; dall’altra si rileva una realtà di degrado, un disagio diffuso, una situazione sempre più difficile. E questo perché le fortune personali, o quelle dei clan, fanno fatica a lasciare un segno sul territorio: nonostante tanta ricchezza non si riscontra un miglioramento della qualità della vita di chi vive a Milano. Gli imprenditori milanesi sono bravissimi, ma, ripeto, dov’è la ricaduta civile, sociale, culturale di questa eccellenza?
Un quadro alquanto desolante…
Non è il caso di essere nostalgici della vecchia fabbrica e della passata borghesia. Però è giusto interrogarsi su quello che sta avvenendo a Milano e trovare dei correttivi da prendere. Restare a guardare, accettando passivamente, non serve a nulla.
Qual è, allora, il suo giudizio sulla borghesia milanese?
La mia impressione, da storico, è che come la nobiltà non ha saputo gestire la neonata Italia, così la borghesia, soprattutto quella manifatturiera, quella delle fabbriche, ha sorretto l’industrializzazione del Paese per meno di un secolo, esaurendo la sua forza propulsiva già negli anni Cinquanta. La borghesia ha fatto molto, ma complessivamente la sua stagione si è rivelata effimera. Forse era troppo debole rispetto alla sfida della modernità.