Proveniente dalla Galleria Borghese di Roma, fino al prossimo 25 settembre il dipinto è esposto insieme a un altro capolavoro di Michelangelo Merisi: la sua «Cena in Emmaus», gemma della Pinacoteca milanese.
di Luca
Frigerio
David solleva la testa enorme del gigante abbattuto: Dio l’ha scelto per quest’impresa che tutti ritenevano impossibile, dandogli la forza per vincere il terribile nemico. E ora il giovane pastore dal torso gracile, poco più che un ragazzo, osserva il suo macabro trofeo senza rabbia, senza disgusto, con la quieta serenità di chi sa di aver portato a termine la giusta missione. E nel suo sguardo si scorge perfino un po’ di pietà, se non di commiserazione, per quell’uomo così arrogante che aveva osato sfidare la divina potenza, finendo annientato. Un Golia ancora incredulo di essere morto davvero.
Il «David con la testa di Golia» è uno dei capolavori di Michelangelo Merisi detto il Caravaggio. Gioiello della Galleria Borghese di Roma, il dipinto è oggi ospite della Pinacoteca di Brera, dove per tutta l’estate, e fino al prossimo 25 settembre, sarà esposto accanto a un altro quadro capitale del maestro lombardo: la sua celebre «Cena in Emmaus» del 1606, che è una delle glorie artistiche della città di Milano.
Brera in questi anni ha promosso dei «dialoghi» fra capolavori appartenenti alle sue raccolte e importanti opere provenienti dai musei di tutto il mondo. Questo è il nono della serie e il terzo dedicato al Caravaggio, dopo l’evento del 2009 che aveva accostato le due versioni della «Cena in Emmaus» (la prima, infatti, è quella realizzata attorno al 1601 per il marchese Ciriaco Mattei e attualmente conservata alla National Gallery di Londra), e quello del 2017 che aveva suscitato grande scalpore perché aveva presentato una «Giuditta che taglia la testa di Oloferne», da poco scoperta in Francia, sulla cui attribuzione gli studiosi si sono fortemente divisi: chi ritenendola lavoro di un seguace caravaggesco come Finson, chi invece di mano autografa del Merisi.
In questo nuovo appuntamento non sussistono dilemmi attributivi, perché le due opere sono assegnate con certezza al Caravaggio. Ma mentre la «Cena» braidense è fatta risalire concordemente alla latitanza di Michelangelo sui colli romani, dopo che il pittore aveva ucciso in una rissa un balordo di nome Ranuccio Tomassoni (il 28 maggio 1606), per il «David» Borghese, nonostante le diverse citazioni storiografiche, resta ancora dibattuta la data di esecuzione. In passato, infatti, si era pensato a una commissione diretta del quadro da parte del cardinal Scipione, collezionista insaziabile e senza scrupoli, collocando quindi la sua realizzazione ai mesi immediatamente precedenti il tragico fatto di sangue. Poi era prevalsa una lettura «psicologica» dell’opera, che individuando nella testa di Golia l’autoritratto del Caravaggio, l’aveva quindi spostata negli ultimi giorni dello sciagurato artista, quasi presago della sua fine.
Più recentemente alcuni esperti caravaggisti, soprattutto su base stilistica, per l’uso del colore e il trattamento delle luci, ipotizzano che il capolavoro della Galleria Borghese possa risalire al primo soggiorno napoletano del Caravaggio, ovvero in una data assai vicina alla «Cena in Emmaus» di Brera. Ecco, allora, che l’eccezionale esposizione nella Pinacoteca di Milano permetterà a tutti, e agli studiosi in primo luogo, un confronto diretto e ravvicinato fra le due opere, alla ricerca di conferme o di smentite riguardo alla loro prossimità temporale.
Ma al di là dei problemi cronologici e stilistici, come sempre, quando si parla del Caravaggio, a colpire è soprattutto la forza della sua pittura. E i riferimenti simbolici che il pittore dissemina nelle sue opere, non tanto come un «gioco» intellettuale di decifrazione, ma innanzitutto come elementi autobiografici che l’artista desidera disperatamente condividere con lo spettatore, del suo tempo come del nostro.
Che nella testa tagliata di Golia si debba vedere il volto del Merisi, infatti, è ben più di una suggestione. Come già in altri suoi dipinti, del resto, come il «Martirio di san Matteo», la «Cattura di Cristo» e l’estremo «Martirio di sant’Orsola», Caravaggio si «mette dentro» al quadro, vivendo in prima persona il dramma che si sta consumando davanti ai suoi e ai nostri occhi.
In questo caso lui stesso assumerebbe la parte del malvagio sconfitto. Consapevole del crimine commesso, stravolto forse dal rimorso e dal rimpianto, con una condanna a morte che pende letteralmente sulla sua testa, Caravaggio si identifica tragicamente con il filisteo schiantato dalla sassata, al quale David ha spiccato la testa per portarla come prova agli ebrei increduli (con la spada sulla cui lama si legge un’iscrizione enigmatica, oggi per lo più letta come «H.as o s», e quindi sciolta con il motto agostiniano: Humilitas occidit superbiam).
E mentre la luce e la vita abbandonano i suoi occhi, con il sangue che gronda dal collo, la sua bocca si apre come in un ultimo urlo disperato. Di chi ha la consapevolezza di avere un grande talento, ma di avere rovinato tutto con le proprie mani.