Il dipinto rinascimentale è una gemma della Pinacoteca Ambrosiana, tornato a risplendere dopo il recente restauro. Si tratta di un’insolita iconografia del "Vincitore della morte" che offre notevoli spunti di riflessione sul tema della Risurrezione
di Luca
Frigerio
Ci affascina e ci sorprende, il bellissimo Cristo risorto di Marco Basaiti conservato presso la Pinacoteca Ambrosiana a Milano. Un capolavoro degli inizi del Cinquecento che oggi possiamo ammirare in tutti i suoi preziosi dettagli e in una luce davvero “nuova”, grazie al recente restauro che l’ha riportato – detto per una volta senza retorica alcuna – all’antico splendore.
Un’immagine particolare
Ci affascina per il nitore della pittura, per la dolcezza della figura, per l’espressività forte e insieme delicata della composizione. Ma, allo stesso tempo, questa tavola del grande pittore del Rinascimento veneziano ci sorprende per un’iconografia di primo acchito insolita e spiazzante, “diversa” da quello che, probabilmente, ognuno di noi si aspetta quando ci si riferisce alla risurrezione di Gesù.
Certo, siamo tutti consapevoli che quell’evento eccezionale è possibile soltanto “immaginarlo”, considerando che i vangeli non lo descrivono – come potrebbero? – e che qualsiasi “ricostruzione”, dunque, non potrà che essere lontanissima dalla realtà di quel che è accaduto quel «primo giorno dopo il sabato», attorno a un sepolcro alle porte di Gerusalemme. Tuttavia, da secoli, gli artisti hanno cercato di rappresentare il Cristo risorto come una figura gloriosa e possente, avvolta di luce, che esce dalla tomba con gesto imperioso, mentre la terra stessa sussulta in uno sconvolgimento generale…
Un Risorto “seduto”
Il dipinto di Basaiti ci mostra invece un Risorto apparentemente “dimesso”, che è sì “trasfigurato” rispetto al martirio della Passione, ma con una fisicità “esile” e “asciutta”, per così dire, privo di quello slancio eroico infuso, ad esempio, da un Piero della Francesca, o lontano da quella corporeità “muscolosa” disegnata da un Tiziano o da un Vivarini, per rimanere nell’ambito veneziano di quegli anni. Un Cristo risorto che, fatto inaudito, è raffigurato addirittura seduto, in una posa che sembra quindi contrastare con il fondamento iconografico stesso del risorgere.
Evidentemente Marco Basaiti, questo interessante pittore di origine greca che cresce e si forma in Laguna alla scuola del Bellini e del Carpaccio, vuole sottolineare altri aspetti. Lo stesso vessillo trionfale, la bandiera crociata che in tante rappresentazioni della risurrezione è brandita da Gesù con energia, qui è appena appoggiato all’incavo del braccio sinistro, e la sua presenza è in fondo più intuitiva che ostentata. Quel che “ostenta” il Cristo, semmai, sono le ferite della crocifissione: chiaramente visibili sui piedi, più “dilavate” sulle mani e sul costato, ma sottolineate dal gesto stesso delle membra. Tanto che il Risorto sembra qui rivelarsi nella diffusa figura dell’Uomo dei dolori e perfino in quella della Pietà, con un chiaro intento di “sovrapporre” le due diverse immagini, l’una sublimata, ma evidentemente non cancellata, dall’altra, soprattutto in quel volto sereno e sorridente del Salvatore.
L’impronta di Leonardo
Straordinaria è la resa del lenzuolo che cinge i fianchi di Gesù, per i morbidi panneggi che testimoniano lo studio di Leonardo da parte del Basaiti, e soprattutto per l’incantevole tono perlaceo del tessuto. Così come l’aspro paesaggio attorno alla figura di Cristo evidenzia richiami simbolici “sparsi” nelle varie specie botaniche (come l’issopo, ad esempio, emblema di sacrificio e purificazione), con il passaggio da un’età ormai arida e senza linfa vitale (come si nota negli arbusti secchi o recisi sul lato sinistro della tavola) a una nuova era che germoglia e cresce già rigogliosa (così si osserva, infatti, nella parte destra del dipinto), di cui proprio il Risorto è “ponte” e “spartiacque”. In alto, una rocca, o una turrita città, è annidata sulla cima di un colle, velata da nubi sottili nel nitore di un cielo turchese, a evocare forse la bruma dell’alba mattutina, la nuova Pasqua.
Gesù siede su una balza del terreno, con semplicità e naturalezza. E proprio questo contatto con la terra rimanda al sepolcro, evocato chiaramente in basso a destra da quella sorta di “tana”, antro oscuro, ventre ctonio dove il Cristo è rimasto per tre giorni e tre notti, come un seme, come Giona nelle viscere del grande pesce. Ma questa sua “seduta” già sembra alludere anche a quel trono che è stato preparato per lui nella gloria dei cieli (come san Paolo più volte rimarca nella Lettera agli Ebrei). E ancora, ipotesi suggestiva, pare perfino rievocare l’episodio della samaritana, dove il Messia, sedutosi presso il pozzo, pazientemente, amorevolmente si intrattiene con la donna per farle dono di un’acqua di vita eterna, venendo qui recuperata la medesima familiarità con lo spettatore…
All’Ambrosiana dal 1827
Questa mirabile opera è giunta all’Ambrosiana nel 1827 dalla collezione del conte Giovanni Edoardo De Pecis, ma nulla si sa della sua storia precedente, né della sua collocazione originaria. E tuttavia proprio l’inconsueta impostazione della tavola, la sua grande raffinatezza unita a un tono intimo e colloquiale, fanno pensare che il dipinto sia stato concepito per una destinazione funeraria, a ornare cioè la sepoltura di un committente particolarmente attento a questioni teologiche e dottrinali. Un fedele addormentatosi nell’attesa della risurrezione, sotto lo sguardo dolce e rassicurante di colui che, come si legge a sinistra sotto il ginocchio, può affermare: «La morte non ha più potere su di me».