Intervenendo all'assemblea dell'Accademia, dedicata al progetto culturale del cardinale Borromeo, l'Arcivescovo ha posto alcuni interrogativi che l'emergenza sanitaria e la sua eredità aprono riguardo le modalità dell'attività dell'istituzione
di Annamaria
Braccini
«Federigo Borromeo fu uno degli uomini rari in qualunque tempo, che abbiano impiegato un ingegno egregio, tutti i mezzi d’una grand’opulenza, tutti i vantaggi d’una condizione privilegiata, un intento continuo, nella ricerca e nell’esercizio del meglio». Così il Manzoni, nel celebre capitolo XXII dei Promessi Sposi, definisce colui che, nato nel 1564, guidò la diocesi di Milano dal 1595 fino alla morte avvenuta il 22 settembre 1631. Proprio nel nome di questo grande pastore ambrosiano – seppure assai diverso dal cugino San Carlo -, fondatore della Biblioteca-Pinacoteca Ambrosiana aperta al pubblico nel 1609, l’Accademia Ambrosiana è tornata, dopo molti mesi, a tenere la propria assemblea in presenza.
Presso la Sala delle Accademie ha preso il via una due-giorni di convegno, inaugurata dall’Arcivescovo nella sua veste di Gran Cancelliere dell’Accademia stessa, con l’introduzione del Prefetto dell’Istituzione, monsignor Marco Ballarini, e la prolusione dell’accademico della Classe di Studi Borromaici Jean-Louis Quantin, docente all’École Pratique des Hautes Etudes della Sorbona di Parigi, presenti tutti gli appartenenti al Collegio dei Dottori, il presidente dell’Ambrosiana Lorenzo Ornaghi, il già rettore della Pontificia Università Lateranense monsignor Enrico da Covolo e molti accademici. Particolarmente significativo il tema complessivo del confronto, dedicato a «Il progetto culturale di Federico Borromeo tra passato e presente», scelto per questa ripartenza volutamente articolata in diverse sessioni nelle quali studiosi di ognuna delle 8 Classi di Studi che compongono l’Accademia – dall’Italianistica a quella Africana, dalla Slavistica alla Grecolatina – sono stati invitati a prendere la parola. Secondo la logica che ispirò sempre il cardinal Federico, per il quale, come scrisse lui stesso e come ha spiegato monsignor Ballarini, «“i libri e le rendite devono essere in funzione degli uomini che scrivano”, perché il meglio nel progresso delle scienze è raggiungibile attraverso un processo essenzialmente collettivo che prevede l’incontro e la comunicazione dei più saggi nell’ideale repubblica delle lettere». Da qui anche l’invito a viaggiare ricercando i migliori maestri, la cosiddetta peregrinatio erudita, e ad accogliere ospiti stranieri provenienti dalle diverse parti del mondo, «perché con vicendevole commerci di lettere si promuovano, con la loro cooperazione, i buoni studi e le lettere date e ricevute si leggano in congresso». «Il desiderio – ha concluso il Prefetto, che ha definito il rivedersi una festa – è che questo convegno sia occasione di conoscenza e di confronto su un’idea di cultura e di studio e sui mezzi necessari per diffondere questa stessa idea».
Poi, dopo la prolusione dell’accademico Quantin dedicata a «Federico Borromeo e i Padri della Chiesa», in particolare san Giovanni Crisostomo, l’intervento dell’Arcivescovo, da sempre molto vicino all’Istituzione e ai suoi Dottori, con i quali nel luglio scorso ha trascorso un’intera giornata di ascolto e dialogo.
L’intervento dell’Arcivescovo
«Sono contento che si sia potuto celebrare questo Dies academicus dopo tanti progetti sospesi a causa della pandemia. Questa celebrazione si pone in un momento in cui non si tratta solo di chiudere una parentesi, ma piuttosto di osare anche una interpretazione di ciò che è successo e di quanto questo evento imprevedibile e drammatico possa suggerire all’Ambrosiana», sottolinea subito l’Arcivescovo, proponendo quelle che chiama «non risposte, ma domande aperte attraverso qualche immagine».
«Si può interpretare la pandemia come un evento traumatico per il corpo sociale che ha causato una sorta di frattura: questa immagine suppone un periodo di cura e di riabilitazione che chiede gradualità, pazienza, competenza, forza di volontà e non solo di tornare come prima. Un’altra immagine è che la pandemia sia stata come un terremoto che ha cambiata la configurazione della zona colpita e dove tornare indietro è impossibile». L’esempio è all’uso «di strumenti di comunicazione semplici ed economici, che permettono di collegarsi con il mondo o di seguire celebrazioni lontane da casa». Evidente e immediata la domanda «se quello che abbiamo sperimentato con i convegni online, possa permettere di pensare a un altro modo di fare e di funzionare dell’Accademia». Infine, l’immagine della pandemia «come l’ingresso in un ambiente sconosciuto nel quale si è potuto fare a meno di tante cose come i musei o le biblioteche e in cui la storia della cultura non risulta più tanto interessante».
Che fare allora? «Come deve operare il Collegio dei Dottori di fronte a sfide inedite e come interpretare, nel contesto contemporaneo, il pensiero di Federico Borromeo? Che cosa ci chiede questo contesto e come essere accademici collegati da tante parti del mondo? L’impostazione dell’Accademia richiede un ripensamento – ha concluso il Gran Cancelliere -. Io non ho risposte, ma invito gli studiosi a immaginare percorsi e processi per offrire alla città e alla cultura quel contributo che abbiamo la responsabilità di non far mancare. Sono interrogativi per i quali vorrei essere aiutato a trovare le risposte».