In prossimità della festa liturgica del vescovo Borromeo, tornano a essere esposti tra i piloni della Cattedrale ambrosiana i teleri che illustrano la vita e i miracoli del compatrono di Milano, realizzati a partire dal 1602 su impulso del cardinale Federico, il fondatore dell'Ambrosiana.
di Luca
Frigerio
«Guardatevi attorno e ditemi? Cosa vedete? Non è forse questo il “gran teatro” della vita del nostro san Carlo?». Non appena padre Lorenzo Biffi ebbe pronunciato queste parole, il silenzio che aveva accompagnato fino ad allora la sua predica fu rotto da un’ovazione collettiva: come un rombo d’approvazione, un’onda sonora che espandendosi fra le navate della cattedrale fece persino oscillare – fu solo un’impressione, o forse successe davvero – le grandi tele appese tra un pilastro e l’altro: i «Quadroni», come erano stati subito ribattezzati dai milanesi, e come da allora vennero ininterrottamente chiamati quegli imponenti dipinti che illustrano la vita, e i miracoli, del santo arcivescovo Borromeo.
Era l’anno 1620, agli inizi di novembre. San Carlo era morto da sette lustri e dieci anni prima era stato canonizzato in San Pietro, quindi in tempi strettissimi, con una solenne cerimonia per la quale la basilica vaticana era stata letteralmente ricoperta, sulla facciata e all’interno, da immagini ed elementi scenografici appositamente realizzati a Milano. Così belli, così imponenti, così suggestivi che il pontefice celebrante, Paolo V, ebbe ad esclamare: «Roma non saprebbe fare cose simili!», cosa che naturalmente aveva inorgoglito oltre ogni dire gli ambrosiani promotori dell’impresa.
Fra i quali vi era appunto anche quel padre Lorenzo Biffi (al secolo Binaghi), barnabita, architetto, fedele esecutore dei dettami di san Carlo Borromeo – dalle cui mani era stato consacrato prete – nel costruire le nuove chiese secondo lo spirito conciliare tridentino. A predicare in Duomo, in quella vigilia della festa del neopatrono di Milano, Biffi era stato invitato – immaginiamo – da un suo concittadino e amico, quell’Alessandro Mazenta che, già protonotario e arcidiacono, sarebbe diventato da lì a poco arciprete della cattedrale.
Mazenta era l’uomo di fiducia del cardinale Federico Borromeo, il fondatore dell’Ambrosiana, di manzoniana memoria (come Mazenta stesso, del resto, visto che l’autore dei Promessi sposi parla anche di lui, nell’episodio dell’assalto ai forni del pane). Quando il Borromeo volle realizzare il suo sogno creando la Biblioteca, infatti, fu a don Alessandro che affidò la realizzazione della nuova sede in San Sepolcro, contando sulle sue capacità organizzative, sulle sue conoscenze giuridiche (si era laureato in diritto a Pisa, con lode), sui suoi rapporti personali con artisti e architetti.
L’idea di celebrare l’arcivescovo Carlo attraverso una serie di grandi quadri da esporre in cattedrale fu proprio del cardinal Federico, suo cugino e suo successore sulla cattedra di Milano. E l’esecuzione dell’impresa, naturalmente, fu affidata a Mazenta stesso, che del resto era anche il «curatore», da parte curiale, della Veneranda Fabbrica del Duomo di Milano.
I lavori iniziarono nel 1602, quando Carlo Borromeo non era ancora santo, ma era stato appena riconosciuto come beato. La prima serie di teleri ne doveva illustrare la vita, con particolare richiamo al suo magistero e ai momenti fondamentali della sua azione pastorale: la carità ai poveri e l’assistenza ai malati (con l’insistente richiamo al ruolo svolto dal santo vescovo nei giorni tremendi della peste, quando il Borromeo fu l’unica autorità pubblica a rimanere fra la gente, colpita e smarrita); le visite a pievi e parrocchie, anche le più sperdute e isolate, della Diocesi milanese, come di quelle suffraganee; l’indizione dei concili provinciali (ne presiedette sei) e dei sinodi diocesani (ne celebrò ben undici); l’introduzione a Milano dei nuovi ordini religiosi – i Barnabiti, i Gesuiti e i Teatini – che contribuirono alla riforma organizzativa e spirituale della Chiesa ambrosiana, secondo i princìpi del Concilio di Trento; la fondazione di seminari, monasteri e conventi; la promozione del culto dei santi, con la pia sistemazione delle reliquie e la loro corretta venerazione, purgata da abusi…
Per questo impegnativo programma fu chiamato, naturalmente, quello che può essere considerato il migliore artista dell’epoca in terra lombarda, ovvero Giovan Battista Crespi detto il Cerano, pittore capace di fondere il realismo caravaggesco con un gusto teatrale di grande efficacia espressiva, in piena sintonia con i gusti e le attese del cardinal Federico. Fu Cerano, probabilmente, a impostare l’intero ciclo della vita di san Carlo, ma mise mano solo ad alcune tele (le più riuscite, artisticamente parlando), mentre le altre furono affidate a una piccola schiera di pittori – Carlo Buzzi, il Duchino, i Fiammenghini, Domenico Pellegrini… – ai quali si chiese di puntare sugli effetti spettacolari e retorici, più che sull’invenzione creativa.
E lo stesso si ripeté alla canonizzazione del Borromeo, nel 1610, quando ai venti quadri biografici si aggiunsero i ventiquattro che ne mostravano gli interventi prodigiosi e le miracolose guarigioni delle quali san Carlo, sulla terra e dal cielo, si era reso protagonista.
Una meraviglia, che in quel 1620 i fedeli ambrosiani contemplavano con emozione nel Duomo di Milano. E noi con loro, ancora oggi, dopo oltre quattro secoli.