Milanese, a 20 anni fu fucilato dai fascisti nel 1943 a Erba perché impegnato nella Resistenza. Morì invocando la Patria e il perdono per i suoi carnefici. Fu insignito della medaglia d'oro: la prima, subito dopo la Liberazione
di Luca
Frigerio
«Puecher era un delinquente pericoloso che agiva per cosciente spirito anti italiano, traviato e ridotto a uno stato di aberrante bassezza morale anche per colpa della pessima educazione ricevuta». Così, all’indomani della sua fucilazione (il 21 dicembre 1943), la stampa fascista scriveva di Giancarlo Puecher, per giustificarne l’assassinio. Concludendo: «Dimentichiamo il nome di questo giovane scellerato…».
Nessuno, invece, ha potuto e voluto dimenticare il sacrificio di Puecher. E le ignobili parole dei carnefici stessi, paradossalmente, risuonano ancor oggi, a ottant’anni da quei fatti, come l’encomio più solenne e il riconoscimento più vero del coraggio e del valore di questo giovane ucciso a 20 anni: patriota, martire della libertà, prima medaglia d’oro della Resistenza lombarda. Un “ribelle per amore”, secondo la definizione del beato Teresio Olivelli, che compose la celebre preghiera ispirato proprio dal suo olocausto.
Giancarlo Puecher Passavalli nasceva un secolo fa, il 23 agosto 1923, a Milano. Il padre Giorgio era uno stimato notaio di origini trentine: liberale e antifascista. La madre Anna Maria aveva cresciuto il figlio secondo i valori cristiani, iscrivendolo al liceo “Leone XIII” dei gesuiti. Questa era la «pessima educazione ricevuta» da Giancarlo. Che fin da adolescente si era fatto notare per le sue doti intellettuali, ma anche atletiche, oltre al fascino della persona: difficile rimanere immuni dal suo sorriso e dai suoi occhi azzurri…
Un giovane “baciato” dalla sorte, insomma: benestante, intelligente, bello. Nella bufera della tempesta della seconda guerra mondiale avrebbe potuto aspettare che “passasse la nottata”, barcamenandosi o defilandosi, come tanti altri in quel frangente. Pensando a sopravvivere, che era già cosa non facile: casa sua, ad esempio, fu tra quelle distrutte dai bombardamenti aerei dell’estate 1943, motivo per cui dovette trasferirsi con la famiglia in Brianza, a Lambrugo.
E invece, subito dopo la caduta del fascismo e in seguito all’Armistizio, di fronte all’occupazione tedesca e all’usurpazione della Repubblica sociale di Mussolini, Giancarlo non esitò a passare all’azione, animato da spirito patriottico e da desiderio di libertà. Confidatosi con i sacerdoti che in zona già sostenevano la Resistenza, anche Puecher si fece partigiano, organizzando un gruppo di altri giovani come lui e portando a compimento atti per lo più dimostrativi, di disturbo e di sabotaggio, nei confronti dei nazifascisti.
La sera del 12 novembre 1943 lui e l’amico Franco Fucci incapparono in un posto di blocco di militi repubblichini, nei pressi di Ponte Lambro: essendo in possesso di volantini antifascisti e di materiale esplosivo, il compagno tentò la fuga, rimanendo ferito. Puecher fu condotto in carcere a Como, dove presto furono rinchiusi altri partigiani del loro gruppo. Anche suo padre venne arrestato, colpevole “solo” di essere contrario al regime e di non aver saputo “educare” il figlio: deportato nei lager nazisti, Giorgio Puecher morirà di stenti a Mauthausen.
La situazione già drammatica precipitò il 20 dicembre, dopo l’attentato a uno squadrista di Erba. Per rappresaglia, i fascisti decisero di giustiziare i resistenti che erano nelle loro mani, dopo un improvvisato processo militare che le stesse autorità repubblichine, pochi mesi più tardi, dichiararono nullo. Ma proprio per l’inconsistenza delle accuse, alla fine fu condannato a morte il solo Puecher, scelto come “capro espiatorio” per la sua notorietà e in quanto era il più giovane del gruppo, oltre che per il fatto che Giancarlo aveva rivendicato anche in tribunale di appartenere, come affermò, al «vero esercito italiano».
Al frate che lo confessò, Puecher consegnò una lettera per la sua famiglia, in cui si legge: «Muoio per la mia Patria. Ho sempre fatto il mio dovere di cittadino e di soldato Spero che il mio esempio serva ai miei fratelli e compagni… L’amavo troppo la mia Patria: non la tradite, e voi tutti giovani d’Italia seguite la mia via e avrete il compenso della vostra lotta ardita nel ricostruire una nuova unità nazionale».
E poi il perdono per i propri carnefici, che solo le anime sante sono capaci di dare: «Perdono a coloro che mi giustiziano perché non sanno quello che fanno e non pensano che l’uccidersi tra fratelli non produrrà mai la concordia». E infine: «I martiri convalidano la fede in una vera idea. Ho sempre creduto in Dio, e perciò accetto la sua volontà».
Chi assistette alla fucilazione del giovane Puecher testimoniò che morì da eroe. Le sue ultime parole, dopo aver abbracciato i soldati del plotone d’esecuzione, furono: «Viva l’Italia!».
Per tutto questo, all’indomani della Liberazione, gli venne conferita la medaglia d’oro al valor militare alla memoria, con la seguente motivazione: «Patriota di elevatissime idealità, scelse con ferma coscienza dal primo istante la via del rischio e del sacrificio. Cadde a vent’anni da apostolo e da soldato, sublimando nella morte la multiforme e consapevole spiritualità che aveva contraddistinto la sua azione partigiana».
In queste situazioni, così eccezionali e così drammatiche, si rischia sempre di sfociare nella retorica. Ma davvero, ancora oggi, a tanti anni di distanza da quegli eventi, il sacrificio di Puecher s’impone alla coscienza di tutti, di come sia possibile reagire di fronte a nuovi soprusi e a nuove emergenze, anche a partire dalla condizione di uomo di fede. «C’è sempre qualcuno da liberare, c’è sempre da donare, c’è sempre la vita che va giocata per l’umanità e per la venuta del Regno», diceva padre Turoldo, ricordando proprio la figura del giovane martire.
(Da Il Segno di aprile 2023)