Il sacerdote milanese, membro storico della Famiglia religiosa Beato Angelico, si è spento all'età di 95 anni, dopo una vita dedicata all'arte sacra. Le sue sculture sono presenti in molti edifici di culto, e non solo ambrosiani. Dalla drammatica avventura della guerra all'amicizia con i maestri dell'arte del nostro tempo, alla sua passione per l'insegnamento.
di Carlo CAPPONI
È stato sacerdote e artista, don Marco Melzi, spentosi alla veneranda età di 95 anni, lo scorso 21 settembre. Uomo obbediente alla voce del Suo Signore che si manifestava attraverso la voce dei Superiori della Famiglia Religiosa Beato Angelico a cui chiese di aderire subito dopo la sua ordinazione sacerdotale avvenuta per le mani del Beato Cardinale Ildefonso Schuster il 3 giugno 1950.
La vita del giovane milanese, classe 1918, è forgiata fin dall’inizio dal fervore per la trasmissione della conoscenza. Fu per molti anni Maestro elementare in differenti luoghi della Provincia di Milano, pur facendo sempre riferimento alla sua Parrocchia di origine di san Gregorio in Milano.
Strappato alle sue amate classi delle Scuole di Inzago allo scoppio della Guerra fu arruolato quale sottoufficiale nell’Arma della Fanteria. Ai giovani allievi del Liceo Artistico e poi dell’Istituto d’Arte, che intratteneva negli intervalli di una scuola già allora a tempo pieno, raccontava delle sue esperienze dirette nei differenti fronti bellici in cui la Patria lo aveva mandato. Grecia, Albania, nelle isole dell’Egeo.
Il suo carattere così aperto e capace di catturare l’attenzione dei giovani adolescenti era strumento per comunicare i valori fondamentali della vita e del comune convivere dei Popoli. Pur essendosi meritato una Decorazione per un’azione di Guerra, e la testimonianza dei Labari delle differenti Associazioni d’Arma alle esequie ne è stata testimonianza, raccontava sempre della possibilità di poter incontrare il cuore delle differenti persone incontrate, fossero i commilitoni o gli avversari militari o civili.
In questo spirito di attesa, come il giovane Samuele pronto ad ascoltare il richiamo nella notte – e di quante notti di paura e angoscia raccontava – rientrato nel ruolo dell’insegnamento, decide di entrare nel Seminario Arcivescovile milanese di Venegono Inferiore. Divenuto sacerdote continua per anni (1951-1958) nella sua attività di insegnamento della Storia dell’Arte alle Scuole dei Seminari liceali. Molti Sacerdoti ancora si ricordano della sua presentazione così interessante di una materia ritenuta minore, rispetto alle discipline che dovevano preparare i giovani al futuro studio della teologia, accattivante perché trasmetteva un amore per la rappresentazione del bello attraverso le forme del fare dell’uomo-artista.
Intanto cresce nella sua adesione alla Famiglia Religiosa voluta dall’arch mons. Giuseppe Polvara. Consegue la licenza artistica e si iscrive all’Accademia di Brera, seguendo in corsi di Scultura dove erano maestri Francesco Messina e Enrico Manfrini. Acquisiti i titoli accademici espleterà il suo servizio all’interno della Scuola, insegnando anche ginnastica, come allora si chiamava la disciplina, abilitato dal suo grado militare e materie artistiche dai diplomi conseguiti.
L’insegnamento fu sempre accompagnato dalla disponibilità ad essere il Padre spirtuale della scuola, prima Liceo e Istituto d’Arte. Senza mai imporre gesti di pietà o pratiche devozionali, sapeva stimolare nei giovani un desiderio di assoluto che si concretizzava in gesti concreti come momenti settimanali di preghiera, attività verso le Missioni e a favore dei meno abbienti. Sempre inviava tutti alle rispettive realtà parrocchiali quali principali luoghi per la crescita e l’educazione alla fede dei giovani.
Ma moltissimi in Diocesi e in tutta Italia, conoscono le opere dello scultore a servizio della celebrazione liturgica. Riconosciuto in questa silenziosa e mai reclamizzata attività, da grandi dell’architettura, in primo luogo Gio Ponti, con cui collaborò in più occasioni. Il luogo più alto di questa collaborazione è la milanese chiesa di san Francesco al Fopponino ma, non senza ricordare la Concattedrale di Taranto. Raccontava del suo rapporto con questo grande maestro dell’Architettura che, entrando nel suo studio di scultura, pieno di polvere di gesso e trucioli di legno, gli sottraeva le sculture per porle sugli altari progettati dal primo. Raccontava di come, casualmente, assemblando delle bacchette avanzo delle fusioni realizzarono, assieme, le piccole cancellate che distinguono le architetture di Ponti, o la reggia metallica piegata a formare le parole delle Stazioni della Via Crucis.
La capace manualità si estrinsecava nella creazione di strumenti muscali poveri, con materiali di recupero o nellas erie delle ocarine in terracotta con cui intratteneva i ragazzi della scuola.
Le sue opere maggiori sono certamente le numerossisime sculture che costellano tante chiese. Il tema mariano meriterebbe uno studio specifico nella sua evoluzione riconoscibile nelle differenti statue da lui create. Entrare nel suo laboratorio, sia in quello antico che in uno più ampio e modernamente attrezzato nella sede nuova della Scuola, era una emozione, non mancava mai un grande foglio da disegno aperto e sul quale erano poche linee abbozzate che sarebbero poi state sviluppate tridimensionalmente.
Pannelli ricoperti da strati di creta da cui uscivano armature per sorreggere braccia di santi o angeli. I numerossimi bozzetti in gesso o terra lasciata cruda, documentano una capacità di plasmare la materia con uno stile personale, proprio e in linea con le ricerche dell’arte contemporanea. Questa ricerca, poi, veniva calata nelle opere più composte, ‘semplici’ da riconoscere perché destinate a favorire la preghiera. Un momento di alta spiritualità, per lui nato nella Festa liturgica dell’Esaltazione della Santa Croce, lo si ha nei grandi Crocefissi destinati ai tanti presbiteri che venivano a lui commissionati. Figure umane del Figlio fermato dai chiodi della passione al legno della croce ma, già elevato nell’abbraccio della Resurrezione.
Non negava il dolore, come non negava le brutture della guerra, ma affermava la realtà sperimentabile di una vita. Come tutti gli Artisti le sue opere seguiteranno, magari anonime per il carisma della Famiglia Religiosa a cui apparteneva, ad accompagnare le preghiere dei molti che passeranno davanti ai tanti portoni di chiese, altari sia dedicati alla Vergine – sempre trono del Figlio – o ai busti del Beato Don Carlo Gnocchi, militare reduce come lui e sacerdote prima di lui.