L'impegno sociale da giovane prete, l'opposizione al fascismo con i giovani di Azione Cattolica, fino al contributo nella lotta di Liberazione come parroco a Sesto San Giovanni. La vicenda esemplare di un "buon pastore" che difese il suo popolo contro ogni ingiustizia, a difesa dei perseguitati.

di Luca FRIGERIO

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«Nei momenti difficili e tormentosi della Resistenza, non curandosi della propria persona, seppe essere vicino ai suoi parrocchiani, difenderli contro tutti i soprusi e le ingiustizie». Così si legge nella motivazione della medaglia d’oro conferita dalla città di Sesto San Giovanni a don Enrico Mapelli.

Parole che ben ricordano il ruolo di primo piano avuto dal parroco nel corso della lotta partigiana e nei giorni della Liberazione all’interno della comunità sestese. Ma che potrebbero riferirsi, allo stesso tempo, a una nutrita schiera di sacerdoti ambrosiani, che, spesso nell’anonimato e nel nascondimento, hanno contribuito fattivamente alla salvezza e alla protezione dei perseguitati dai nazifascisti, lavorando poi per un’autentica pacificazione al termine della guerra.

Certo, il caso di don Mapelli può essere considerato emblematico, e persino esemplare. Perché il suo impegno antifascista, cioè di autentica educazione alla libertà, non fu sporadico né ebbe un carattere emergenziale, ma si configurò come un coerente progetto pastorale lungo tutto il ventennio mussoliniano, nel far crescere uomini nuovi per un nuovo Paese, alla luce del vangelo e con la guida dei valori cristiani.

Attuare la Dottrina sociale della Chiesa.
Enrico Mapelli era nato nel 1880 a Roncello, nel vimercatese. Ordinato prete dal cardinal Ferrari, come primo incarico fu destinato a Cantù, dove si fece subito promotore di una cooperativa di consumo e di una cassa rurale, dando così concretezza agli insegnamenti della dottrina sociale della Chiesa, che in tempi di radicali trasformazioni raccomandava la tutela dei soggetti più deboli.

Personalità forte e decisa, sacerdote di grande carica umana e ricco di capacità organizzative, don Enrico si fece amare e rispettare in ogni contesto in cui si trovò ad operare. Come al Collegio Rotondi di Gorla Minore, dove fu chiamato quale direttore spirituale. Così nella sua esperienza di cappellano militare al fronte, durante la Grande guerra, l’«inutile strage» condannata da papa Benedetto XV. E ancora quale responsabile di una casa di correzione per minorenni.

All’epoca della “marcia su Roma” don Mapelli era parroco a Vedano al Lambro. Qui aveva organizzato la locale sezione di Azione cattolica, la cui attività dava evidentemente fastidio ai fascisti, al punto che nel 1924 gli squadristi devastarono il circolo giovanile, minacciando di morte lo stesso curato. Che tuttavia non si lasciò intimidire.

A Sesto per volontà del card. Schuster

Nei primi anni Trenta il cardinal Schuster gli affidò la guida della comunità parrocchiale di Santo Stefano, in quella realtà in particolare fermento che era Sesto San Giovanni, alle porte di Milano, in rapida e impressionante conversione da cittadina rurale a enorme agglomerato industriale.

Spesso le prediche domenicali di don Enrico, come ricordavano i parrocchiani dell’epoca, suonavano come «durissime requisitorie» contro certi atteggiamenti del Duce, a cominciare dalla partecipazione italiana alla guerra civile in Spagna. Non tutti, naturalmente, ne apprezzavano l’impegno “politico” (in tutto assimilabile, peraltro, a quello di un don Sturzo), così che non mancarono delazioni in Curia e denunce alle autorità.

Ma la principale preoccupazione del nuovo prevosto era rivolta, ancora una volta, alla formazione dei giovani. Proprio quelli che il regime voleva indottrinare e inquadrare nelle organizzazioni fasciste. In questa prospettiva, ad esempio, don Mapelli invitò più volte a Sesto l’allora presidente diocesano della Giac, Giuseppe Lazzati, che contribuì non poco nel formare negli oratoriani sestesi una coscienza critica contro la volgarità e la violenza della dittatura. Mentre nelle officine e negli uffici, sempre per suo impulso, nasceva l’esperienza dei “raggi”, per favorire un’educazione sociale cristianamente intesa.

In prima linea nella Resistenza
Dopo l’Armistizio (l’8 settembre 1943), con la nascita della Repubblica sociale e l’occupazione tedesca, il parroco, insieme ad alcuni dei suoi “ragazzi”, diede vita a una vera e propria organizzazione clandestina per dare supporto ai partigiani, nascondere i renitenti alla leva forzata, impedire la deportazione di lavoratori italiani in Germania, salvare ebrei e perseguitati.

Il teatro parrocchiale, che si trovava all’asilo Petazzi, divenne la sede del comando della 25ͣ Brigata del popolo, ma anche – insieme all’oratorio San Luigi – nascondiglio sicuro per i ricercati dalle milizie fasciste, deposito di armi, centro di raccolta e diffusione della stampa democratica. E per superare le divergenze fra le diverse anime della resistenza sestese, lo stesso don Mapelli mise a disposizione la casa parrocchiale per le riunioni del Comitato di liberazione nazionale, assumendo il delicato ruolo di tesoriere.

I fascisti erano a conoscenza dell’operato del parroco, tanto che il comandante della Brigata nera “Resega” negli ultimi giorni del 1944 scriveva nel suo rapporto: «Altro da far saltare sarebbe il prevosto di Sesto San Giovanni, certo don Mapelli, che tanti danni ha già arrecato al governo della Repubblica sociale… La sua parrocchia è un formicaio di antifascisti, di ribelli, di sabotatori». Parole che oggi suonano come un encomio alla memoria di questo sacerdote: “ribelle”, sì, ma per amore.

Nell’imminenza dell’insurrezione, don Enrico chiese alle suore di allestire presso l’asilo una sorta di pronto soccorso. Un ospedale da campo che si rivelò provvidenziale e che, all’indomani del 25 aprile, venne subito trasformato, con la benedizione del cardinal Schuster e sotto l’egida del Vaticano, in un centro di raccolta e di cura per i nostri militari che tornavano dai lager nazisti. Anzi, lo stesso coadiutore di don Mapelli, don Pietro Greco, insieme ad alcuni volontari, si recò più volte in Germania per riportare a casa centinaia di internati e di deportati.

Facendo un bilancio di quanto era stato fatto dalla chiesa di Sesto durante la Resistenza, il prevosto affermò con umiltà che il merito era «soprattutto dei miei parrocchiani e di tutti i cattolici della città».

Città che, in tutte le sue componenti, lo pianse come un padre quando da lì a non molto, nel 1948, don Enrico lasciò questa vita terrena.

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