Una pagina significativa nella lotta di Liberazione e che ebbe come protagonisti laici e preti, a Vimercate e in Brianza.
di Luca
Frigerio
Negli anni terribili della seconda guerra mondiale, e soprattutto dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, tra gli italiani i più cercarono semplicemente – ovvero «disperatamente» – di sopravvivere, aspettando che passasse la bufera. Alcuni continuarono ad aderire con feroce determinazione al regime mussoliniano, per convinzione ideologica o per convenienza. Altri, invece, all’inizio soltanto una minoranza, si impegnarono in prima persona, anche a rischio della vita, per liberare il Paese dall’oppressione nazifascista e per costruire una società diversa e migliore, democratica e repubblicana.
I cattolici, in particolare, laici e sacerdoti, si prodigarono per proteggere e mettere in salvo ebrei e perseguitati politici, distinguendosi in un’autentica resistenza, anche se per lo più disarmata. Dopo decenni di silenzi, dovuti a certi pregiudizi storiografici e al naturale riserbo dei protagonisti stessi, quelle vicende in buona parte sono state finalmente ricostruite e rese note: come abbiamo fatto, a più riprese, anche su queste pagine, a proposito del contributo del mondo cattolico ambrosiano alla lotta di liberazione.
«Un covo di vipere»
Uno dei centri più attivi, in questo senso, fu il territorio brianzolo, con la città di Vimercate in prima fila. Qui, infatti, operava «un gruppo veramente pericoloso», almeno secondo le autorità fasciste. Si trattava di un «bubbone della peste molto infettivo», come lo definì il comandante della Brigata Nera di Monza, il colonnello Zanuso, in una relazione del 21 febbraio 1945, perché «composto da uomini, sacerdoti e no, con una preparazione culturale, con programmi chiari per il futuro, che non speriamo prossimo: gente che non si compera e non si vende». Parole che si sono rivelate profetiche – quel «futuro», per fortuna, si è avverato appena due mesi più tardi – e che, involontariamente, risuonano ancora oggi come la medaglia più splendente e il riconoscimento più limpido per quei combattenti per la libertà.
Alla guida di quel gruppo di «eroi», formato da uomini e donne «normali», per lo più appartenenti alle parrocchie, agli oratori e ai circoli cattolici della zona, vi era un giovane prete, don Enrico Assi, destinato a diventare figura di prestigio del clero ambrosiano, collaboratore del cardinal Colombo e del cardinal Martini, nominato vescovo di Cremona nel 1983 (dove è morto, nove anni più tardi).
Ordinato sacerdote nel 1943 dal cardinal Schuster, don Enrico era professore di lettere al seminario di Seveso, ma la domenica prestava servizio proprio nella «sua» Vimercate, dove era nato nel 1919. Qui intratteneva stretti rapporti con il Collegio arcivescovile Tommaseo, che già da tempo si era distinto come una «palestra» di educazione democratica alla luce del magistero sociale della Chiesa, tanto da essere ritenuto – sono sempre le informative della polizia repubblichina ad affermarlo – un «centro importantissimo, basilare, per le azioni di propaganda antifascista».
Dopo l’Armistizio, don Assi, insieme al coadiutore dell’oratorio vimercatese, don Attilio Bassi, divenne in zona il punto di riferimento della resistenza di ispirazione cattolica, stabilendo contatti anche con i partigiani delle Brigate Garibaldi e organizzando la diffusione del giornale clandestino Il ribelle, realizzato da Teresio Olivelli e Carlo Bianchi. Impegnandosi, soprattutto, a sostenere la rete di aiuti agli ebrei, ai renitenti alla leva e ai perseguitati dai nazifascisti: in collaborazione con altri gruppi ed altri sacerdoti brianzoli, come ad esempio quel don Mario Ciceri che fra pochi giorni sarà proclamato beato.
Arrestati dai fascisti
Per questa sua attività don Enrico Assi venne arrestato dalla milizia fascista il giorno dell’Epifania del 1945, nell’ambito di un ampio rastrellamento seguito a una sfortunata azione partigiana al campo d’aviazione di Arcore, che portò alla cattura e alla fucilazione di cinque giovani. Il sacerdote, con abilità e decisione, riuscì a respingere le accuse e a nascondere le prove del suo coinvolgimento nella resistenza, venendo così rilasciato.
Per nulla intimorito, Assi intensificò ancor più il suo impegno, tanto che fu fermato una seconda volta il 2 febbraio, e questa volta insieme al confratello don Attilio: entrambi i sacerdoti furono quindi trasferiti al carcere di Monza, dove vennero sottoposti a pressanti interrogatori e minacciati di sevizie se non avessero collaborato. E quando ormai credevano di essere destinati alla deportazione in un lager tedesco, il 15 giunse l’ordine per la loro scarcerazione, grazie all’intervento fermo e accorato del cardinal Schuster.
Contro le vendette
Di quei giorni e di quell’esperienza monsignor Enrico Assi ci ha lasciato cronache e riflessioni di grande valore. Nelle quali si legge anche il suo impegno, quello di don Attilio Bassi e di tanti altri cattolici ambrosiani nel cercare di evitare vendette, processi sommari ed esecuzioni dei fascisti stessi: «L’idea di poter uccidere in nome della propria ideologia era dura a morire. Guai se fosse trasmigrata dalla vecchia ideologia totalitaria e negatrice delle libertà alla stagione nuova che si apriva alla libertà e alla democrazia».