Un ricordo del grande e indimenticato sacerdote ambrosiano, a dieci anni dalla morte. Professore, scrittore, formatore, assistente degli scout, è stato innanzitutto un uomo di Dio, costruttore di ponti tra Occidente e Oriente, tra storia ed escatologia.
di Rosanna MOSCATELLI
Dai Navigli di Milano, dove è nato, ai Navigli dei ricordi d’infanzia del suo ultimo libro. In mezzo c’è don Adolfo Asnaghi, un sacerdote della Chiesa ambrosiana che ha dedicato gran parte della sua vita all’insegnamento e allo studio dell’ortodossia, della storia, della filosofia, della cultura russa. Negli ultimi suoi anni ha scritto straordinari racconti fatti di sogni e visioni fantastiche con personaggi incantevoli, diavoli che si commuovono, ere incompiute, lumi che affogano nell’insensatezza umana, ma anche templari dal gran cuore, giovani che cercano bellezze e trascendenze celesti, regine che portano dentro di sé un gran bisogno d’infinito e di assoluto.
Nato a Milano il 4 settembre 1917, al termine degli studi classici e dopo il conseguimento della licenza in Sacra Teologia, il 18 maggio 1940 don Asnaghi è ordinato sacerdote e subito assegnato come coadiutore alla parrocchia di Santa Maria Beltrade di Milano. Nel 1946 è a Cantù, presso il collegio “De Amicis” come docente dei prefetti e professore di filosofia e storia al Liceo Scientifico. Nel 1950 consegue la laurea in Teologia con una tesi su “La nozione di Chiesa nel pensiero di Vladimir Sergeevič Solov’ëv” e l’anno seguente traduce, primo in Italia, “L’avvento dell’Anticristo” di Solov’ëv. Nel 1957 è tra i fondatori di “Russia Cristiana” insieme con padre Scalfi, mons. Enrico Galbiati, padre Pietro Modesto, padre Nilo Cadonna e con loro e come loro ha fatto conoscere la spiritualità del popolo russo in anni in cui della Russia si diceva tutto il male possibile. È stato conferenziere, giornalista, saggista, educatore e per diversi anni assistente delle scout ex AGI a Cantù e a livello nazionale. Ebéd Shalóm, servo della pace, è il totem che le scolte dell’AGI gli hanno assegnato una sera attorno al fuoco di bivacco. Un nome che don Asnaghi ha onorato per tutta la vita.
Negli anni ‘70 pubblica “L’amante della Sofia”, una biografia di Solov’ëv e “Le porte belle”, un viaggio interiore nell’ortodossia. Dedica i suoi ultimi anni alla scrittura di una serie di racconti brevi, come “La lacrima di Mefistofele”, “Il canto di Cleopatra”, “Voci dal rogo” e “La grande incompiuta”. Riordina, aggiorna e in parte riscrive la “Storia ed escatologia del pensiero russo” del 1973 e con Servitium la pubblica nel 2003 con il titolo “L’uccello di fuoco”, una storia della filosofia russa che dedica ad Alessio II, patriarca delle Russie e al cardinale Carlo Maria Martini.
Ha vissuto servendo la chiesa ambrosiana, una vita nascosta, lontano dai clamori della città e dalla magnificenza delle accademie universitarie. A dieci anni di distanza dalla sua morte, avvenuta il 16 gennaio 2007, tutti coloro che l’hanno incontrato ricordano il suo incessante, insistente, instancabile lavoro per l’unità: l’unità tra l’ascolto della Parola e il suo annuncio; l’unità tra la storia e l’escatologia; l’unità tra la razionalità dell’occidente e la capacità contemplativa dell’oriente, “quella parte della terra – scrive nel libro ‘Le porte belle’ – che sperimentò le prime gesta salvifiche del Messia e dei suoi discepoli”.
Per questo ha amato la Sofia, creatura primigenia di Dio, anima del mondo che ha il compito di accompagnare l’uomo, tutto il creato e l’universo intero nel cammino verso l’unità, quando tutto tornerà ad essere una cosa sola in Dio.
Per molti don Asnaghi è stato il professore, il giornalista, il conferenziere, l’assistente scout, lo studioso di cose russe, uno che scriveva racconti, un appassionato di storia, un formatore di giovani. Veniva sempre presentato così, a seconda delle circostanze.
Ma don Asnaghi è stato prima di tutto un uomo di Dio che sollecitava ogni persona a non dimenticare Dio, a non scordarsi di Cristo nell’indaffarata quotidiana esistenza. Consapevole che il mondo terrestre e quello celeste si uniranno solo alla fine dei tempi, ha cercato, già sulla terra, di portare tutti il più vicino possibile all’assoluto, a vivere dentro la storia, ma con gli occhi sempre fissi alle “novissimae res”. Ha ricordato che storia ed escatologia devono stare sempre insieme. Altrimenti, vien meno l’integrità della persona.
Attraverso i suoi scritti sull’ortodossia, ha cercato di costruire ponti per portare all’unità tutti i cristiani, d’oriente e d’occidente.
«L’unità è una promessa, è un testamento – scrive nel 1966 – l’unità è un impegno, un progresso. L’unità è un servizio. E’ un partire, è un incontro, è un convergere in ciò che unisce. L’unità è un far sì che ciò che ci unisce sia tutto ciò per cui si vive. E’ un vivere in modo che più nulla ci possa disunire. E’ un trovarsi e un ritrovarsi; è una bandiera, un desiderio, un tormento, una sofferenza. Se manca l’umiltà, diventa una chimera, se manca la fede diventa una confusione, se manca la speranza, si muta in un’illusione. L’unità è il Vangelo, è la Chiesa del Signore, è il Regno di Dio. L’unità parla nella trasparenza dell’uomo, zampilla nella preghiera del cuore, riaffiora nel dolore e nella pena, si rafforza nella comprensione, si illumina nella gioia della testimonianza, si implora nella miseria della propria coscienza, si costruisce al seguito di Gesù. L’unità respira nell’ultimo respiro, quando la nostra ansia storica si placa nell’unità escatologica».