Martedì 6 maggio un concerto nel Duomo di Milano aiuterà a riscoprire una delle figure più interessanti del mondo musicale italiano dell'Ottocento: un maestro particolarmente attento alle sacre composizioni.

di Giovanni GUZZI

Giuseppe Verdi

Quando, nel 1832, Giuseppe Verdi non fu ammesso (per aver superato i limiti di età) al Conservatorio che oggi ne porta il nome, il violista e compositore Alessandro Rolla gli suggerì di continuare gli studi sotto la guida dei professori Neri o Lavigna. Verdi scelse Vincenzo Lavigna, per il quale nutrì sempre riconoscenza e ammirazione. Chissà per quale ragione lo preferì a Benedetto Neri del quale è probabile che Verdi abbia avuto occasione di ascoltare i brani sacri eseguiti negli anni ‘30 dell’Ottocento in San Fedele ed in Duomo, dove il musicista ricopriva l’incarico di maestro di Cappella.

Ma l’esperienza di poterne cogliere le “modalità” compositive e le capacità espressive potranno farla anche i milanesi del nostro tempo recandosi in Duomo, il prossimo martedì 6 maggio (ore 20.30 ingresso libero a partire dalle 20.00 e fino ad esaurimento dei posti disponibili) quando la musica di Benedetto Neri verrà eseguita dai Civici Cori di Milano Civica Scuola di Musica diretti da Mario Valsecchi.

Ed il maestro Valsecchi è anche l’artefice della riscoperta di questo compositore dell’ottocento romantico italiano di cui ha recuperato partiture inedite rinvenute in alcune biblioteche milanesi e presso l’Archivio della Veneranda Fabbrica del Duomo, custode della produzione musicale dei maestri di cappella che si sono succeduti nel servizio della Cattedrale in oltre sei secoli di continuità artistica.

La lodevole iniziativa di valorizzare la musica sacra composta ed eseguita proprio a poche centinaia di metri dalla Scala, nelle chiese di Milano frequentate da Alessandro Manzoni al tempo in cui il giovane genio di Busseto viveva e operava, offre anche l’opportunità musicologica di verificare le influenze del linguaggio corale sacro dell’epoca nell’uso verdiano del coro, attore, spesso essenziale e imprescindibile, nei drammi del grande musicista, da Nabucco fino a Otello.

Nato a Rimini nel 1771, Benedetto Neri fu per diversi anni maestro di cappella a Novara ma svolse la sua attività di musicista prevalentemente a Milano, dove giunse in seguito alla nomina come professore al Conservatorio e dove morì nel 1841.

La sua ampia produzione musicale, prevalentemente “religiosa” in conseguenza degli incarichi ecclesiastici di cui si è detto, comprende svariate messe, inni e mottetti ma anche il dramma giocoso I saccenti alla moda, su libretto di Angelo Anelli, che venne rappresentato alla Scala nel 1806.

Della sua musica, che integra stilemi operistici senza eccedere nel virtuosismo, i brani di spicco in programma sono, in apertura, lo splendido Magnificat per soli coro e organo, tra le opere più riuscite di Benedetto Neri, e le Strofe per una prima comunione, destinate a un organico di due voci femminili e organo e legate a vicende familiari di Alessandro Manzoni che ne scrisse i testi nell’aprile del 1832 su richiesta di don Giulio Ratti, preposto parroco della chiesa di San Fedele.

A proposito di questa vicenda risulta che al canonico occorressero dei versi da far cantare ai giovani che avrebbero ricevuto la prima comunione in quell’anno. Il poeta scrisse tre strofe che saranno musicate da Benedetto Neri e cantate il 10 maggio 1832, proprio in occasione della celebrazione delle prime comunioni che videro fra i comunicandi il figlio dello stesso Manzoni, Enrico.

Al primo gruppo di strofe Manzoni ne aggiunse poi un secondo nel 1834 e un terzo nel 1850. Vennero pubblicate nel 1855 in Opere Varie.

Il repertorio dei brani di Benedetto Neri in programma si completa con l’Antifona post Magnificat Rubum quem viderat, il Gloria in excelsis, il salmo Dixit Dominus, l’Ave Maria e un mottetto, Exaudi Domine, per soprano e organo obbligato.

Si tratta, nell’insieme, di un significativo assaggio emblematico del suo linguaggio musicale nelle composizioni “da chiesa” che, sia nella conduzione melodico-ritmica delle parti solistiche e corali, sia nel trattamento dell’organo accompagnante (che risente molto delle caratteristiche foniche e strutturali degli organi dell’inizio dell’800 e, soprattutto, dalle possibilità esecutive ispirate allo stile “orchestrale” imperante), è in grande misura “condizionato” dai modi propriamente teatrali; questo a riprova di quanto l’opera fosse preponderante nel gusto popolare, al punto da vedere accettate e desiderate anche in ambito liturgico le tipologie stilistiche sue proprie.

Del resto, come già accennato, non bisogna dimenticare che, spesso, il maestro di cappella si dedicava alla composizione di opere per il teatro: prima ancora di Neri, Fioroni, Monza e Sarti -per citarne solo alcuni- ne sono una dimostrazione.

Accanto a questa “modernità” linguistica non viene meno la pratica dell’antica tecnica contrappuntistica “alla Palestrina”, che anche i compositori d’opere dimostrano di conoscere e di ben padroneggiare. Lo testimonia, nella loro musica, la presenza di estesi contrappunti che ne denotano la scienza compositiva e l’abilità nel riuscire a far convivere l’antico stile ecclesiastico accanto allo stile teatrale.

Il connubio, non esprime affatto contrasti stridenti nella compresenza di “antico” e “moderno” ma, anzi, dimostra l’ampia ricchezza di possibilità espressive, adeguate a rendere i contenuti e le narrazioni del testo “sacro” in modo chiaro, articolato e coinvolgente per chi ascolta.

Altrettanto interessante è il trattamento dell’organo “concertante”. In forza di un’antica disposizione, risalente al Concilio di Trento e alla severa applicazione delle norme liturgiche messa in atto da San Carlo nella “sua” diocesi, attuale ancora nell’800 nelle chiese ambrosiane alle quali il Duomo doveva dare il “buon esempio”, nessuno strumento era ammesso in concorso con le voci al di fuori dell’organo. Per questa ragione -l’intenzione era di rispettare la specificità austera della musica dedicata al sacro- il consistente repertorio prodotto dai maestri di cappella che si sono succeduti nel tempo vede l’impiego del solo organo, unico strumento “da chiesa”. In veste di “basso continuo” nel periodo barocco, diviene concertante nel ‘700 e così si mantiene nel secolo seguente.

Tale severità non impedisce, però, la contaminazione stilistica a opera dello stile teatrale, che entra con prepotenza anche nelle chiese: nei salmi, nei mottetti e nelle messe, nella conduzione delle voci e nel linguaggio organistico concertante.

Incastonato tra le composizioni di Neri sopra elencate, il programma proposto dai Civici Cori presenta anche una rara partitura verdiana di Giuseppe Verdi del 1879: il Pater noster, volgarizzato da Dante, per 5 voci miste.

Si tratta di un magnifico brano corale di toccante bellezza che, senza ricorrere a retoriche teatralità, regge musicalmente la tensione emotiva dal verso iniziale “Padre nostro che nei cieli stai” fino all’Amen finale.

La storia di quest’opera ci svela un curioso falso riguardo alla pretesa paternità dantesca del testo. Il Pater Noster venne eseguito alla Scala sotto la direzione di Franco Faccio il 18 aprile 1880. Verdi ne dava notizia al pittore Morelli aggiungendo: “E sono versi (giù il cappello) di Dante!!”.

Inoltre, fin dal 31 luglio 1879, al musicista tedesco Ferdinand Hiller aveva scritto: “Mi decisi poi a fare il Pater noster a cinque voci tradotto da Dante stesso, e che trovasi appunto nelle sue Opere Minori da cui voi traeste il vostro De Profundis”. Ora i testi musicati da Verdi non sono sicuramente di Dante, ma il compositore li trovò attribuiti a Dante in una delle edizioni antiche o anche ottocentesche delle Rime, che li contenevano. La musicologia non ha mai rilevato questo particolare. Del Padre nostro dei superbi nel canto XI dell’Inferno non c’è, nel testo musicato da Verdi, che il primo verso: O Padre nostro, che ne’ cieli stai; in seguito le terzine procedono per conto loro, con altre rime e altri concetti, parafrasando la preghiera tradizionale ed anticipando i più recenti adeguamenti liturgici nel verso “Ancor ci guarda dalla tentazione dell’infernal nemico” più corretto del tradizionale “e non ci indurre in tentazione” e decisamente migliore della più recente traduzione ufficiale “e non ci abbandonare alla tentazione”.

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