Il 13 ottobre 1822 moriva il maestro del Neoclassicismo, acclamato come uno dei più grandi artisti di tutti i tempi. A Milano c'è la sua statua bronzea di Napoleone nel cortile di Brera. Ma gli ambrosiani devono essergli grati anche per il suo intervento nel recupero del "Codice Atlantico" di Leonardo...

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di Luca Frigerio

Il barone Ottemfels era piuttosto contrariato. Lui, un anziano militare asburgico dalla prestigiosa carriera, abituato ai campi di battaglia e alle missioni diplomatiche, era stato incaricato di sovrintendere al rientro delle opere d’arte trafugate da Napoleone nel Lombardo-Veneto, in ottemperanza alle decisioni del Congresso di Vienna. Non che l’arte non gli piacesse, anzi. Ma dover controllare casse e imballaggi di statue e dipinti, caracollando tra il Louvre e la Biblioteca nazionale di Parigi, ebbene, questo no, questo non lo trovava degno di un soldato come lui.

«Queste carte, ad esempio, cosa sono?», si chiese l’ufficiale austriaco sfogliando distrattamente, e anche con un certo fastidio, quei fogli ingialliti sui quali a fatica si potevano scorgere schizzi e disegni, vergati con una grafia illeggibile e in una lingua apparentemente sconosciuta. «Cineserie…», borbottò Ottemfels, scuotendo la testa e mettendo quei poderosi volumi in un mucchio di materiali destinati a rimanere in Francia.

La scena, tuttavia, fu colta da Antonio Canova, che si trovava anch’egli in missione a Parigi in quel 1815, ma per conto del Papa, per recuperare i capolavori sottratti dai napoleonici nello Stato pontificio. Con tatto e discrezione, così, il grande scultore fece notare al plenipotenziario asburgico che quelle vecchie carte erano nientemeno che di Leonardo da Vinci, che notoriamente scriveva all’incontrario, da destra a sinistra, e per questo gli appunti del geniale artista e scienziato gli erano parsi incomprensibili. Ottemfels lo guardò perplesso, ma poi, con un’alzata di spalle, acconsentì a mettere i tomi del Codice atlantico nel baule che recava l’etichetta: «Biblioteca ambrosiana».

Fra pochi giorni, esattamente il 13 ottobre, ricorre il bicentenario della morte di Antonio Canova. E basterebbe anche soltanto questo episodio, il suo provvidenziale intervento che ha riconsegnato a Milano i preziosissimi fogli vinciani, per fare grata memoria di questo artista eccezionale, acclamato in vita come «il nuovo Fidia», celebrato dai posteri con infinita ammirazione, quale massimo esponente del Neoclassicismo. Movimento che fu rivoluzionario, tra il crollo dell’Ancien regime e l’affermarsi dell’età davvero moderna: che, in un significativo paradosso, recuperava il mondo antico per creare una contemporaneità «classica», capace di sfidare il tempo e le mode.

Nato nel 1757 a Possagno, nella terra trevigiana del Grappa, formatosi a Venezia, Antonio Canova si trasferì poco più che ventenne a Roma, che scelse come sua città d’elezione, per le possibilità che offriva a un artista del suo genio, ma soprattutto come fonte d’ispirazione. Le sue opere, del resto, suscitarono subito l’entusiasmo generale, e la sua fama crebbe a dismisura, così come le commissioni, che gli arrivavano da tutta Europa: un’attività scultorea talmente intensa, la sua, da fiaccarne anche la salute.

Con Napoleone il rapporto fu d’amore e odio (come del resto per molti altri, in quegli anni). Perduti i privilegi romani in seguito alla vittoria francese, profondamente amareggiato per la cessione della Repubblica veneta all’Austria con il trattato di Campoformio e per la continua asportazione di capolavori dall’Italia, Canova era riluttante a mettere la proprio arte a servizio di Bonaparte, nonostante le continue sollecitazioni. Ma alla fine dovette cedere, per calcolo e per pressione del papa stesso, Pio VII, al punto di diventare l’artista «ufficiale» del regime napoleonico.

Dopo un soggiorno a Parigi, tra il 1803 e il 1806 Canova realizzò una colossale statua di Napoleone, ritraendolo a figura intera nelle sembianze di Marte pacificatore. Il marmo, che oggi – per ironia della sorte – si trova al Wellington Museum di Londra, piacque a tutti: ma non all’effigiato, che non apprezzò affatto di essere stato raffigurato nudo e così «atletico», e temendo forse lo scherno del pubblico nei suoi confronti, ordinò che l’opera fosse riposta nei depositi del Louvre (debitamente coperta).

Ciò nonostante, quella statua era talmente bella che lo stesso Eugenio di Beauharnais, viceré del Regno d’Italia e figliastro di Napoleone, ne commissionò a Canova una copia esatta in bronzo, per innalzarla a Milano in un luogo di grande evidenza, come piazza Duomo o l’attuale piazza Fontana. La caduta dell’imperatore francese, tuttavia, bloccò questo progetto, e anche la splendida statua bronzea del «Napoleone pacificatore» finì in cantina, questa volta all’Accademia di Brera. Da dove fu tolta solo nel 1859, grazie alla visita a Milano di un altro Napoleone, il Terzo, per essere collocata al centro del cortile braidense, dove ancor oggi si trova.

Ma Milano conserva anche un superbo ritratto di Canova stesso, che si trova in quell’Ambrosiana che il maestro di Possagno ha così beneficato con il suo provvidenziale intervento. Tradizionalmente giudicato autografo (e ritenuto quindi un autoritratto), il grandioso busto che si ispira ai modelli eroici e idealizzati dell’antichità classica recentemente è stato attribuito invece a un suo aiutante, Giovanni Battista Monti: degno discepolo di cotanto maestro, dunque.

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