Una riflessione a 36 anni dal tragico rapimento del presidente della Democrazia Cristiana per mano delle Brigate Rosse.

di Paolo BUSTAFFA

Aldo Moro

«Che la luce non manchi, che il filo non si spezzi, che il cuore non si stanchi». L’aveva appreso da piccolo nella sua terra di Puglia questo frammento di saggezza popolare e certamente lo aveva ripetuto dentro di sé anche nei tragici cinquantacinque giorni che lo videro prigioniero delle Brigate Rosse: 16 marzo – 9 maggio 1978.

Tornano queste tre immagini davanti alla cappella nel piccolo cimitero di Turrita Tiberina dove Aldo Moro riposa accanto alla sua “dolcissima Noretta”. Nella piazza del piccolo borgo che dall’alto guarda il Tevere una scultura ricorda gli uomini della scorta, trucidati dalle Br nell’agguato di via Fani: Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi.

I passi, in questo luogo della memoria, del pensiero e della speranza, prendono una direzione diversa da quella solitamente proposta dagli storici e dai commentatori politici. I pensieri vanno alla fede di un uomo politico. Torna alla mente il passo di una lettera scritta alla moglie sotto lo sguardo spietato di quelli che Paolo VI chiamò “uomini delle Brigate Rosse” e alla cui coscienza invano si rivolse: «Ho solo capito in questi giorni cosa vuol dire aggiungere la propria sofferenza alla sofferenza di Cristo per la salvezza del mondo». Parole, commenterà il giornalista Giuseppe Giacovazzo, che si avvicinano molto a quelle dell’apostolo Paolo: «Completo in me quel che manca alla passione di Cristo». Parole di due uomini, di due cristiani, in catene.

Nel 36° anniversario della tragedia forse queste parole non entreranno nelle considerazioni e nelle riflessioni che si svolgeranno sul piano storico e ancor più su quello politico. Ma l’essere e l’agire di uomini e donne che hanno fatto e fanno della loro vita un servizio alla città, non si possono pienamente comprendere se non se ne cercano le radici spirituali.

Ed è di queste radici che si avvertono la nostalgia e la domanda in una stagione in cui l’incertezza della politica e la debolezza del pensiero rimettono a tema l’eclissi della coscienza le cui conseguenze sul piano morale ed etico sono, anche in ambito pubblico davanti agli occhi di tutti.

Uscire da questa eclissi che dura da troppo tempo non è un percorso facile, neppure per un cristiano. Aldo Moro, scrive lo scrittore e critico letterario, Sabino Caronia, «si era chiesto se la scelta che il cristianesimo pone all’uomo non fosse una scelta impossibile: da una parte la luce, paurosamente lontana nel tempo e nello spazio, e dall’altra l’oscurità incombente quotidiana, così tangibile da impegnare ogni pensiero».

È l’inquietudine di sempre del cristiano: come tenerla viva e feconda e non consegnarla al disorientamento e allo spaesamento? Che cosa può dire oggi questa inquietudine alla società, alla comunità cristiana, a coloro che hanno compiti politici e responsabilità di governo?

Papa Francesco nella “Evangelii gaudium” offre una risposta. «Sono convinto – scrive – che a partire da un’apertura alla trascendenza potrebbe formarsi una nuova mentalità politica ed economica che aiuterebbe a superare la dicotomia assoluta tra l’economia e il bene comune sociale». È l’appello a riprendere con rinnovata onestà intellettuale i sentieri del dialogo tra fede e vita, tra fede e cultura, tra fede e politica. Il cammino che porta alle mete alte del pensare e dell’agire in politica è tutto in salita.

«Che la luce non manchi, che il filo non si spezzi, che il cuore non si stanchi»: il frammento di saggezza popolare racchiude, in un tempo di crisi, il messaggio d’incoraggiamento e di speranza di Aldo Moro. Ma anche rilancia il suo monito alla coscienza di un popolo e dei suoi governanti: «Questo Paese non si salverà, la stagione dei diritti e delle libertà si rivelerà effimera, se in Italia non nascerà un nuovo senso del dovere». Un senso del dovere che ha radici non solo nel pensiero dell’uomo.

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