Una bella esposizione di preziose opere d'arte e di oggetti della vita quotidiana della civiltà sul "tetto del mondo" al Museo Popoli e Culture a Milano.

di Luca FRIGERIO

tappeto Tibet Pime

Ignoto, misterioso, affascinante. Sono gli aggettivi ancor oggi più usati, quando si parla del Tibet. Terra magica e ardua su quel “Tetto del mondo” dai paesaggi sconfinati. Patria di una storia millenaria, fieramente custodita anche nel travaglio dell’epoca contemporanea. E, proprio per questo, meta dei viaggiatori più ardimentosi e appassionati. Quelli che aspirano a un viaggio dell’anima, a un’esplorazione interiore, più che a semplici escursioni turistiche o etnografiche.

Come fece, agli inizi del Settecento, il missionario gesuita Ippolito Desideri, pioniere assoluto del dialogo fra cristianesimo e buddhismo nella quiete dei monasteri di Lhasa, primo studioso occidentale a indagare lo straordinario patrimonio culturale tibetano. E come tornò a fare Giuseppe Tucci nella prima metà del secolo scorso, portando di nuovo un po’ d’Italia all’ombra degli stupa e di quelle montagne altissime e incantate…

Già, non ci si può sottrarre al fascino del mondo tibetano. Come ben sanno i collezionisti dell’associazione Cultural Paths che hanno messo a disposizione le opere da loro raccolte in anni di ricerche, oggi presentate in una bella mostra promossa dal Museo Popoli e Culture del Pime. E come potranno scoprire i visitatori che si recheranno nei suggestivi spazi espositivi di via Mosè Bianchi a Milano, dove fino al prossimo 28 giugno si possono ammirare splendidi e rari manufatti provenienti dal Tibet, dalle statue ai tappeti, dai libri ai dipinti, ma anche raffinati oggetti d’uso quotidiano (per info: tel. 02.43820379; www.museopopolieculture.it ).

Si narra che nell’anno 632 della nostra era, il primo sovrano di questi territori montuosi, Srong-Brtsan-Sgan-po, inviò in India un giovane studioso, Thon-mi Sambotha, affinché apprendesse la dottrina di Buddha e studiasse le scritture. Fu lui, dunque, secondo la tradizione, che diffuse la religione buddhista fra il popolo tibetano, dandogli anche un nuovo alfabeto e una specifica grammatica. Da allora, pur alimentata dalle influenze culturali indiane e cinesi, la civiltà tibetana si è via via sviluppata in modo autonomo e originale, fino alla creazione di un patrimonio unico di credenze e di tradizioni.

Come i celebri libri tibetani, ad esempio. Interamente scritti a mano da monaci specializzati, si compongono di singoli fogli impilati l’uno sull’altro senza rilegatura, ma avvolti in un drappo di stoffa gialla, in seta o cotone. La copertina è costituita solitamente da massicce assi di legno, incise a rilievo, spesso decorate a lacca, colorate e dorate: si tratta di vere e proprie opere d’arte che, a differenza della tradizione occidentale, non vogliono illustrare il contenuto dei volumi, ma favorire la concentrazione e l’ispirazione di chi si appresta alla lettura.

Ancora più caratteristici sono i cosiddetti thang-ka, cioè dei rotoli di stoffa sui quali sono dipinte delle figure sacre, poi ornate con ricami e applicazioni colorate. Esposte nei templi, ma anche nei luoghi di culto privati o domestici, queste immagini evocano la presenza del divino, invitando il fedele alla preghiera e alla meditazione. Anche in questo caso, autori di tali lavori sono soprattutto dei monaci-artisti, che in passato erano “nomadi”, nel senso che si trasferivano di monastero in monastero, mettendo a disposizione delle diverse comunità il loro talento. E proprio come avveniva per gli artisti europei, anche i maestri tibetani erano assistiti da una bottega e potevano contare su una schiera di allievi e discepoli.

Questi dipinti, per la loro funzione sacra, erano impostati con regole iconografiche fisse e rigorose, pressoché immutate nei secoli. Così che la creatività artistica si è manifestata maggiormente in altri manufatti tipici del Tibet, come i magnifici tappeti, che per la particolare tecnica di annodatura e per il fantasioso uso dei colori ancor oggi si distinguono dalla restante produzione asiatica.

Ma l’oggetto che ogni tibetano porta con sé – uomo o donna, bambino o anziano che sia – è il gau, un piccolo reliquiario di metallo che viene personalizzato con l’inserimento di immagini di Buddha, o sassolini provenienti da luoghi santi, o ancora frammenti di testi sacri, amuleti, ricordi di famiglia… Tutto quanto, insomma, costituisce il mondo più intimo e privato dell’individuo. Che si sente comunque parte di un tutto. Di un universo infinito dove ogni cosa è sacra, e che ha nella terra del Tibet il suo cuore.

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