Il grande pittore lombardo fu battezzato il 30 settembre 1571 nella chiesa di Santo Stefano, a pochi passi dal Duomo, come testimonia l'atto ritrovato presso l'Archivio storico diocesano. E a 13 anni tornò nel capoluogo per studiare con il maestro Simone Peterzano, mentre terminava il suo episcopato un "gigante" come san Carlo Borromeo...

di Luca Frigerio

Non ci sono dubbi: l’artista più amato, e probabilmente più conosciuto, ai nostri giorni è il Caravaggio. Lo dimostra il clamore che accompagna ogni evento che si fregia del suo nome; lo rivela il successo che riscuotono le mostre che espongono anche una soltanto delle sue opere; lo evidenzia l’annuncio continuo di scoperte di nuovi dipinti e di nuovi documenti, veri o presunti, messi in rapporto con la sua figura. È una moda, certo: oggi lo stile del maestro lombardo piace. Ma non è soltanto questo, evidentemente. Il fatto è che l’uomo del nostro tempo si riconosce nella pittura del Caravaggio, nel suo modo di rappresentare la realtà, per come proprio questo artista dipinge sentimenti, emozioni, paure, speranze. Il Caravaggio lo sentiamo come un nostro contemporaneo: «parla» a noi, di noi.

Michelangelo Merisi nasceva esattamente 450 anni fa, nel 1571. Ma non a Caravaggio, il borgo della sua famiglia, che pur gli diede il nome d’arte con il quale è ancor oggi universalmente noto. Il Caravaggio vide la luce a Milano, molto probabilmente il 29 settembre, giorno appunto in cui si festeggia san Michele arcangelo. Fu quindi battezzato il giorno successivo, il 30, nella chiesa di Santo Stefano in Brolo (o Maggiore): e di questo siamo certi, perché una decina di anni fa, grazie a un appassionato ricercatore – un «dilettante» attento che riuscì lì dove molti addetti ai lavori avevano fallito – fu ritrovato l’atto di battesimo tra i documenti conservati presso l’Archivio storico diocesano.

Si tratta di una scarna registrazione anagrafica, eppure leggere quelle poche parole è perfino commovente. Veniamo a sapere, infatti, che il padre di Michelangelo si chiamava «Fermo», mentre sua mamma era «Lucia» (Aratori): due nomi dalla forte suggestione manzoniana, considerando che sono quelli dei protagonisti della prima stesura dei Promessi sposi (in quella definitiva, invece, lo scrittore preferirà il nome «Renzo», per evitare garbugli linguistici). Certo, è soltanto un caso, perché Manzoni non aveva motivo per ispirarsi proprio ai genitori del Caravaggio: eppure questa coincidenza ha in sé qualcosa di veramente suggestivo…

È interessante anche il fatto che il neonato Michelangelo sia stato battezzato proprio nella chiesa di Santo Stefano, che si trova subito dietro il Duomo, che all’epoca era un grande cantiere che attirava a Milano operai, artigiani e artisti da tutto il territorio lombardo (e da più lontano ancora). Chissà se anche Fermo Merisi, appena sposato con la sua Lucia, aveva cercato un impiego presso la cattedrale, come esperto di costruzioni o come semplice manovale (nella «sua» Caravaggio, del resto, ancora oggi si è convinti che egli fosse specializzato nella posa dei tetti, attività per la quale andavano famosi i muratori della zona).

Cresciuto nella bassa bergamasca, Michelangelo Merisi tornò a Milano a 13 anni, nella primavera del 1584, per entrare a bottega di uno dei più apprezzati pittori dell’epoca, Simone Peterzano: un veneziano che vantava di essere stato «alunno di Tiziano» e che dopo essersi fatto apprezzare a Bergamo era approdato nel capoluogo lombardo, diventando il beniamino del patriziato locale e ricevendo importanti commissioni ecclesiastiche (tra le molte sue opere milanesi si deve ricordare, almeno, la bellissima «Deposizione di Gesù nel sepolcro» in San Fedele e il mirabile ciclo di affreschi nella Certosa di Garegnano).

Quegli anni, a Milano, e ben oltre, erano dominati dalla personalità di un «gigante»: l’arcivescovo Borromeo. San Carlo, infatti, nel suo travolgente episcopato, lasciò un segno indelebile non soltanto nella Chiesa ambrosiana, ma anche in tutta la società del tempo, con il suo magistero, la sua azione, il suo pensiero. Al punto che anche la pittura di Michelangelo Merisi, consapevolmente o inconsciamente, ne risulta fortemente impregnata.

 

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