Il bombardamento della città è il segnale della definitiva deflagrazione del conflitto?
di Riccardo MORO
È iniziata la battaglia di Damasco? Voci e video dalla capitale siriana mostrano come l’esercito stia bombardando il quartiere al Tadamon. I colpi seguono gli scontri durissimi dei giorni scorsi nei quartieri meridionali e occidentali della capitale con decine e decine di morti. Kofi Annan aveva appena confessato la difficoltà di trovare una soluzione alla crisi siriana, il nuovo presidente egiziano Morsi era appena stato ricevuto dal Segretario di Stato Usa Hillary Rodham Clinton per registrare la sintonia sull’equilibrio tra tentazioni fondamentaliste e consenso (e conseguente finanziamento) internazionale, quando a Damasco la tensione ha iniziato a degenerare.
Non sappiamo in questo momento dire se i colpi a Damasco siano i sintomi della definitiva deflagrazione del conflitto, che non rimane più confinato in alcune aree del paese, ma giunge sino alla capitale a insediare un presidente sempre più piccolo e isolato. Ciò che è sotto gli occhi di tutti è che la situazione è ormai insostenibile, mentre non si trova il percorso per un intervento realmente risolutivo.
La vicenda siriana infatti ha una dimensione interna e una internazionale. In quella internazionale pesa il confronto tra Russia e Cina e paesi occidentali. Al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite Russia e Cina minacciano il veto di fronte a risoluzioni che intimino a Bashar al Assad di lasciare il potere o autorizzino azioni militari contro di lui. Non possono opporlo però in sede di Assemblea Generale, dove infatti è già stato approvato un documento che intima il presidente a lasciare il potere per celebrare libere elezioni, e che è naturalmente rimasto lettera morta. La memoria dell’azione armata in Libia pesa tuttora e i due grandi big orientali non hanno alcuna intenzione di lasciare di nuovo carta bianca a europei e americani. Si tratta di una zona strategica del pianeta, ma soprattutto ritengono che sia in gioco la loro autorevolezza internazionale, necessaria per negoziare con peso su altri tavoli e preziosa per legittimare le scelte interne. Non si dimentichi che Putin è tornato alla presidenza contestato per la prima volta da movimenti popolari in grado di riempire le piazze di Mosca, e che in Cina è in corso il delicato avvicendamento guidato dal Partito Comunista che porterà tra qualche mese al rinnovo del vertice del potere. In una logica di solo potere, perdere autorevolezza all’estero indebolisce a casa.
Se sulla scacchiera siriana si sviluppano giochi che poco hanno a che vedere con la Siria, gli attori che occuperanno gli spazi creati col concorso di quelle dinamiche sono locali. Difficile dire con certezza di chi si tratti in questo momento. Nell’opporsi al potere assoluto del presidente Bashar, succeduto al padre senza elezioni scimmiottando i processi dinastici delle monarchie assolute, si incontrano sia le componenti più liberali della società siriana sia quelle fondamentaliste. Difficile dire chi potrebbe prevalere. Preoccupa la capacità militare di alcuni tra gli oppositori, che richiede capacità organizzativa, risorse finanziarie e contatti per garantire l’approvvigionamento di armi. Elementi che non sembrano caratterizzare l’opposizione politica liberale spontanea. Per questo esiste la preoccupazione che la caduta di Bashar al Assad possa aprire la strada a derive fondamentaliste anche peggiori dell’attuale inaccettabile regime.
La Siria è riuscita ad inimicarsi anche la Turchia abbattendo un aereo turco fuori dei propri spazi di sovranità. Assad si fregiava di un’amicizia speciale con la Turchia e con lo stesso presidente Erdogan, con la cui famiglia aveva spesso condiviso le vacanze negli anni scorsi e quell’azione rivela la improvvisazione con cui si muove ormai la leadership siriana. La Turchia ha fatto sapere che non avrebbe dato vita a rappresaglie, invitando però la Siria alle scuse che, sia pure in ritardo, sono giunte piene di sentimenti di amicizia. Forse dovrebbe essere proprio Ankara l’asse per la costruzione di un negoziato per giungere prima ad un cessate il fuoco e successivamente ad una pace duratura. Potrebbe essere un’occasione per sperimentare l’efficacia di un’azione Ue-Turchia in appoggio alla diplomazia Onu. Se avvenisse dimostrerebbe l’urgenza dell’ingresso di Ankara nell’Unione: l’appartenenza al sistema Europa faciliterebbe per la Turchia l’ancoraggio ai principi democratici e darebbe all’Europa una opportunità autorevole a facilitare dialogo e pace dando protagonismo al maggior paese a maggioranza islamica dell’area.
La via di una mediazione guidata da un attore regionale, di fronte all’impasse in cui si trova l’azione internazionale, potrebbesmuovere gli equilibri cristallizzati ma instabili di oggi e il bombardamento di Damasco potrebbe essere una delle ultime improvvisazioni di Assad: Russia e Cina non possono sostenere al lungo chi bombarda le case dei propri cittadini, gli Usa difficilmente possono promuovere un’altra azione militare, dopo la Libia, in un anno elettorale. Il governo italiano si muoverà in questa direzione? Ogni proiettile in più oggi rende più difficile la ricostruzione di una pace vera domani, quando le armi avranno perso la parola.