Scrittore raffinato e primo presidente della Cecoslovacchia post-comunista
di Marco TESTI
Una lunga malattia si è alla fine portato via, a 75 anni, il primo presidente della Cecoslovacchia libera dallo spettro di una “patria” occhiuta e gelosa, capace di mandarti i carri armati ad ogni sospetto di eterodossia. Vaclav Havel che divenne presidente della Repubblica Ceca nel 1993 a seguito della pacifica separazione dalla Slovacchia, non è stato però solo il protagonista di una stagione indimenticabile di lotte non-violente che dettero torto a Machiavelli, dimostrando che i profeti disarmati potevano vincere le loro guerre e non bruciare sui roghi accesi in piazza.
Havel ha dimostrato anche un’altra cosa: che gli intellettuali non sono tutti topi di biblioteca e corpi separati in perpetua contemplazione del proprio ombelico, ma gente capace di prendere la realtà per il bavero, affrontandola e cambiandola. Nessuna sorpresa se quindi a leggere i suoi drammi e le sue poesie si scopre un impegno deciso e mai tramontato. Per Havel impegno non voleva dire prendere la tessera di un partito, anche perché nella Cecoslovacchia dagli anni Quaranta in poi l’unica tessera di partito ammessa era quella comunista, ma lottare per la libertà e la dignità dell’uomo.
Già nelle sue liriche giovanili il futuro fondatore di Charta 77 affrontava la questione della distanza abissale tra programmi ideologici e realtà del regime, che non aveva risolto affatto i problemi della miseria e della libertà. In realtà la sua passione più grande restò la scrittura teatrale, tanto che appena terminata la sua esperienza politica, tornò a scrivere un dramma, Gli addii, storia – piuttosto attuale e non solo in Cecoslovacchia – di un politico incapace di dimenticare il potere dopo averlo perduto. In Festa in giardino, nel 1963, egli aveva denunciato gli eccessi e gli stravolgimenti della burocrazia di stato. Il crollo della speranza in uno stato perfetto, sorta di prefigurazione di un paradiso tutto laico sulla terra divenne elemento costante di molte sue opere, come Difficoltà di concentrazione, in cui denunciava il rischio – diventato realtà – che l’uomo fosse non liberato, ma addirittura alienato e schiavizzato da quelle ideologie che erano nate per costruire una società migliore.
Quando dopo l’infelice esperienza della Primavera di Praga, nel 1968, Havel sarà emarginato dal potere e costretto ai lavori manuali, anche le sue opere verranno messe al bando, con la paradossale situazione di circolare ed essere ampiamente apprezzate fuori dalla Cecoslovacchia e vietate in patria. In tutte le sue opere, da L’udienza a Lago desolato a Vernissage, permane il senso profondo di una delusione individuale e generazionale, poiché le illusioni che poggiavano su una ideologia capace di cambiare il mondo e renderlo migliore erano naufragate miseramente. Di qui l’impegno personale di Havel in una politica di stampo liberale e filo-occidentale da una parte e la fede cristiana che gli permise di affrontare persecuzioni e miseria con grande coraggio e dignità.