Si apre l’anno giudiziario, è l’occasione per un “chek-up”. Troppe lentezze e lunghezze: in Italia la durata di un procedimento civile è in media di 1.150 giorni. Ma a Torino è meno di 450 giorni, a Milano 650. Una delle cause è la carenza di Cancellieri
di Stefano DE MARTIS
L’inaugurazione dell’anno giudiziario, prima a Roma in Cassazione, poi nelle diverse Corti d’appello, al di là delle polemiche che accompagnano la ritualità dell’evento è sempre l’occasione salutare per un check-up sullo stato di salute dell’amministrazione della giustizia. Se diversi sono gli accenti posti nelle diverse sedi, ci sono però dei filoni che ritornano in modo pressante praticamente ovunque. Il più rilevante è quello della lentezza e lunghezza dei processi, con un accumulo abnorme di pendenze. Nel settore penale, questo comporta un boom delle prescrizioni. Nella Corte d’appello di Napoli, per esempio, finisce così quasi il 40% dei procedimenti. Ma non è soprattutto una questione di nord e di sud, perché in cima c’è Venezia che da sola produce il 7,5% del totale nazionale contro l’1% di Palermo. Quello delle prescrizioni è un meccanismo perverso che si autoalimenta, perché proprio la speranza di arrivare a questo risultato spinge gli avvocati a ricorrere a tutti gli espedienti possibili per allungare la durata del procedimento.
Nella giustizia civile la media nazionale dei processi con rito ordinario è di 1.150 giorni, più di tre anni. Il ministro guardasigilli Andrea Orlando può a buon diritto sottolineare il dato che dai circa 5.200.000 cause civili pendenti nel giugno 2016 si è passati a circa 3.800.000. Ma si tratta pur sempre di numeri abnormi. Non mancano le eccezioni positive, come a Torino, dove i processi sono definiti mediamente in meno di 450 giorni, contro i 650 di Milano e meno della metà della media nazionale. «Questo risultato – ha sottolineato il presidente della Corte d’appello, Arturo Soprano – è stato raggiunto grazie all’impegno e alla diligenza dei magistrati torinesi, che hanno accolto con entusiasmo l’invito a dotarsi di un nuovo metodo di lavoro». Quindi non è soltanto una questione di leggi, e a dirlo è un magistrato.
Comunque sarebbe semplicistico ridurre tutto a una questione di produttività. Il problema delle carenze di organico è reale e imponente. Se alla Corte d’appello di Milano, non una sede defilata, si parla di “giustizia al collasso” e si dichiara mancante un 15% di magistrati e un 35% del personale amministrativo, la situazione è obiettivamente grave. La carenza di Cancellieri, per esempio, produce effetti devastanti: si calcola che per questo motivo la Procura di Roma non possa liberarsi di circa 30.000 giudizi già pronti. I Cancellieri mancanti erano quasi 10.000, 1.600 sono già arrivati e nel giro di un anno i nuovi saranno 3.300, assicura il ministro Orlando, che dopo vent’anni di blocco ha indetto un concorso per 800 posti da Cancelliere. Ma hanno fatto domanda addirittura 308.468 persone (un numero equivalente tutti gli abitanti del Molise) e chissà quanto tempo ci vorrà tra prove, ricorsi eccetera, prima di vedere all’opera i neo-assunti. Intanto si tampona con 3.000 borsisti laureati in giurisprudenza e 1.000 tirocinanti non laureati, e con gli impiegati in mobilità da altri enti pubblici. Dalla Corte d’appello di Bologna, il presidente Giuseppe Colonna ha detto chiaramente che «la giustizia si basa troppo sul precariato».
Per non parlare poi della cosiddetta “magistratura onoraria”, prevista dall’articolo 106 della Costituzione, una realtà che non si esaurisce nella figura più nota, quella del Giudice di pace, e che tratta circa il 60% di tutto il contenzioso civile e penale. Il comparto è stato oggetto di una riforma lo scorso anno, ma gli operatori sono in rivolta contro queste modifiche che a loro giudizio rendono ancora più acuta la condizione di precariato. Proprio in concomitanza con l’inaugurazione dell’anno giudiziario hanno indetto il loro terzo sciopero da novembre e si stima in 150.000 il numero dei processi che saranno rinviati.
Un altro problema segnalato da molte Corti d’appello, ma che in alcune situazioni specifiche, come Cagliari, ha avuto ripercussioni particolarmente rilevanti, è quello della crescita delle cause relative ai richiedenti asilo. Anche in questo caso ci sono evidentemente regole e procedure da mettere a punto, ma le “buone pratiche” possono comunque aiutare molto. A Catania, per esempio, il Tribunale ha attivato per primo in Italia il progetto Migrantes, supportato dal Formez e dal Cisia, che prevede la telematizzazione delle comunicazioni tra le commissioni territoriali relative al riconoscimento dello status di rifugiato. A questo si sono aggiunti un monitoraggio costante delle criticità presenti nei Paesi di provenienza dei migranti e gruppi di lavoro specifici per i minorenni non accompagnati. «È una nuova frontiera della giustizia civile – ha affermato il presidente della Corte d’appello catanese, Giuseppe Meliadò – e vi è il pericolo di considerarlo come un contenzioso di massa se non di serie B, ma l’immigrazione non è solo un’emergenza processuale e organizzativa, ma pone anche un problema di tutela dei diritti».