Un tasso così elevato non si era mai visto. Un commento ai dati Istat, relativi a maggio 2012, resi noti oggi
di Andrea CASAVECCHIA
L’Istat notifica nella sua rilevazione mensile di maggio 2012 che la disoccupazione giovanile arriva al 36,2%. Un tasso di disoccupazione a trenta giorni così alto, tra i quindici-ventiquattrenni, non si era mai visto.
Già gli esperti commentano della carenza formativa soprattutto nell’incapacità di connettere sistema d’istruzione e sistema aziendale, una peculiarità italiana. Altri parleranno di scarsa accessibilità del lavoro. Altri di scarsa disponibilità dei giovani a impegnarsi. Forse ognuna delle dichiarazioni svela un tratto di realtà.
Elsa Fornero, ministro del Lavoro, è stata criticata perché, poco tempo fa, dichiarava che il lavoro non è un diritto, si deve guadagnare, sudando. L’affermazione sarà anche stata fuori dalla cornice dei principi costituzionali, forse (a me hanno insegnato a inserire un’informazione nel contesto per comprenderla). Sicuramente anche qui c’è un tratto che coglie la realtà, molto più scomodo degli altri; così da diventare più scandaloso degli altri.
L’Italia non garantisce un lavoro. Sono troppi i cittadini a spasso. E sono troppi i cittadini che non hanno un lavoro dignitoso. Non si tratta di discutere sui contratti, che sono essenziali, ma sulle opportunità che un sistema concede. Queste opportunità sono estremamente povere, soprattutto per i giovani.
Non è corretto nascondersi dietro le analisi statistiche, che parlano di precari, di scoraggiati, di inoccupati. Conosco ragazzi che studiano di giorno e cercano di guadagnare qualcosa di notte, o viceversa, con lavoretti provvisori, rimediati, senza futuro e molto spesso senza contratto.
Sono stanco di sentire generalizzazioni sulla generazione di sfaticati o di mammoni. È vero, esistono e saranno pure una percentuale rilevante. Tuttavia, sono sempre meno di quelli che studiano, di quelli che lavorano o almeno ci provano e di quelli che cercano un’occupazione. Sono questi che fanno la storia di un Paese.
Vorrei vedere negli occhi di quei giovani che ogni giorno faticano, due volte quanto faticavo io alla loro età, nella speranza di un futuro migliore. Invece vedo in loro solo stanchezza e forse qualche volta indignazione, perché con il proprio guadagno non si acquista nemmeno autonomia nelle spese. Noi non riusciamo a garantire questa speranza.
Se il lavoro fosse un diritto, i giovani potrebbero iniziare a immaginarci sopra un percorso di vita personale, valutare concretamente le proprie aspirazioni e i propri desideri. Abbiamo legato il lavoro al posto fisso, ma non riusciamo più a legare il posto all’utilità, che non significa solamente profitto, ma anche crescita della società e delle persone che ne fanno parte.
Se il lavoro fosse un diritto, dovrebbe giustificarsi nella sua capacità di operare per il bene comune oltre che per il sostentamento privato. Invece siamo fermi a lavori sterili.
Allora, se non troviamo senso al nostro lavoro, il lavoro perde la sua potenzialità di diritto.