La grande opera di cui ha urgente bisogno l’Italia
a cura di Patrizia CAIFFA
«La grande opera di cui ha bisogno oggi l’Italia è risanare il territorio, mettendo i comuni in condizione di contenere il rischio idrogeologico», insieme a «strategie di adattamento e prevenzione dei nuovi rischi causati dai cambiamenti climatici»: a parlare al Sir è Marco Fratoddi, direttore della rivista La Nuova Ecologia, specializzata in temi ambientali, in una riflessione sull’emergenza maltempo che ha colpito la Liguria, il Piemonte, la Toscana e diverse Regioni del Sud, provocando, nelle ultime due settimane, oltre venti vittime e danni incalcolabili. Nel mondo si stimano oltre 300 mila morti l’anno a causa dell’emergenza climatica.
In Italia sono 6.633 i comuni a rischio idrogeologico, con oltre 3 milioni e mezzo di persone esposte al pericolo di frane e alluvioni. Dati noti, eppure continuano ad accadere tragedie. Quali riflessioni da queste ultime, drammatiche, vicende?
Bisogna capire che uno degli investimenti migliori che il Paese possa fare è quello di mettere in sicurezza i territori a rischio, passando all’atto pratico. Sono anni che si racconta di un piano straordinario contro il dissesto. Ma il governo ha addirittura tentato di scippare al ministero dell’Ambiente i fondi finalizzati a questo programma. Il ministro Prestigiacomo ha denunciato la settimana scorsa, in audizione al Senato, che i 150 milioni messi a disposizione nella legge di stabilità sono ancora insufficienti. Bisogna sottolineare che la grande opera di cui ha bisogno oggi l’Italia è risanare il territorio, mettendo i comuni in condizione di contenere il rischio idrogeologico. Anche perché è necessario spiegare bene le ragioni ai cittadini: da una parte c’è il consumo di suolo, vale a dire la cementificazione eccessiva che impedisce al terreno di assorbire le precipitazioni, per cui si crea il rovinoso ‘effetto palla di cannone’. Questo è particolarmente evidente in Liguria. Poi, ad aggravare questo scenario, c’è il problema dei cambiamenti climatici che produce fenomeni estremi, come le precipitazioni più forti e concentrate. In una strategia di adattamento a questi scenari bisogna che il Paese investa.
Secondo Legambiente servirebbero almeno 43 miliardi di euro per mettere in sicurezza il territorio. In un periodo di crisi come quello attuale potrebbero obiettare che non sanno dove prendere i soldi…
Primo: devono rendersi conto che i danni del rischio idrogeologico costano di più. Secondo: ci sono stanziamenti previsti per opere che non riescono a partire, come il Ponte sullo Stretto di Messina, o che potrebbero essere gestiti in una forma meno onerosa e più coerente con le ragioni del territorio, come la Tav, ad esempio ammodernando la linea esistente. Bisogna rivedere il bilancio dello Stato e le politiche economiche del Paese, orientandole verso questo risvolto della green economy, ossia l’adattamento ai fenomeni atmosferici e il risanamento del territorio. La politica invece è inerte e in grave ritardo. C’è tanta retorica nel momento del dolore. Ma poi, quando bisogna operare scelte coerenti con le emozioni, non riesce a farlo. Quelle emozioni passano presto nel dimenticatoio e si scelgono le logiche delle lobby e degli interessi di chi crede in un’economia vecchia e superata.
Nonostante il ritardo della politica c’è però una maggiore presa di coscienza nell’opinione pubblica?
Penso di sì. Questi eventi scioccanti producono fatalmente una presa di coscienza e un cambiamento nelle abitudini. Già prima dei fatti tragici di queste settimane, l’opinione pubblica italiana si dimostrava ben disposta nei confronti di tutto ciò che ha a che fare con una migliore qualità dell’ambiente: cresce il favore per il biologico, per i mercati a Km 0, c’è una maggiore disponibilità a compiere scelte concrete di vita che puntano a ridurre il nostro peso sulla biosfera, c’è stato un enorme boom nelle energie rinnovabili: siamo oramai il primo Paese al mondo come potenza installata nel fotovoltaico. Esiste una disponibilità dei cittadini che li rende più avanzati rispetto alla propria classe politica. Consiglierei a tutti noi, la prossima volta in cui si voterà, anche a livello locale, di verificare cosa prevedono gli schieramenti su questi temi, anziché farsi guidare da scelte ideologiche. È per il benessere di tutti e della nostra economia.
Tornando al maltempo a Genova: la procura ha aperto un’inchiesta per disastro e omicidio colposo. Ci sono precise responsabilità?
Sono sorpreso che un allarme annunciato non abbia portato a misure più drastiche per la messa in sicurezza della popolazione. Ma fa parte delle tragiche scoperte della nostra epoca. C’è una tragica presa di coscienza sul fatto che bisogna preparare le nostre città, attrezzandole per l’adattamento al cambiamento climatico. Costruire delle competenze, e una cultura della gestione del rischio climatico nella popolazione. Bisogna però lasciar fare a chi svolge le indagini per non esprimere sentenze sommarie. Certo è che anche gli amministratori locali devono aprire gli occhi sul fatto che i cambiamenti climatici li mettono di fronte a prove che loro stessi non si aspettano.
I Comuni però ribattono che non hanno fondi a disposizione per la messa in sicurezza dei territori…
È vero che non ci sono fondi, ma bisogna anche seminare una cultura di prevenzione del rischio, che non richiede fondi di grande entità. Lavorare sulla cultura della prevenzione dei nuovi rischi, insieme alla Protezione civile, per far sì che i cittadini non si trovino impreparati di fronte a queste situazioni inedite. È vero che c’è la crisi, è vero che il governo ha tagliato i fondi ai comuni, è anche vero che non sono mai stati avviati dei programmi forti di prevenzione. Così come ci si è attrezzati rispetto alla sismicità, ora dobbiamo attrezzarci rispetto ai rischi del clima.
A questo proposito il 28 novembre si aprirà a Durban il 17° Vertice sul clima. Dopo i fallimenti di Copenaghen e Cancun, quali premesse?
Le premesse sono orientate verso un prolungamento del Protocollo di Kyoto. È un obiettivo minimo ma utile per contenere le emissioni entro limiti vincolanti per i governi. L’anno prossimo potrebbe essere un anno cruciale perché in primavera ci sarà il vertice Rio+20. Dobbiamo auspicare che nell’arco di questo semestre di negoziato si rimetta a tema, su scala internazionale, il bisogno di creare più limiti vincolanti per le emissioni di C02 per animare, a partire dalle politiche europee, i processi verso l’economia low carbon.
Si parla di 300 mila vittime l’anno a causa dei cambiamenti climatici. All’inizio l’allarme è stato lanciato dai Paesi del Sud del mondo. L’Occidente ha dovuto fare i conti sulla propria pelle per rendersene conto?
L’Occidente si è già accorto – per esempio con l’uragano Katrina a New Orleans qualche anno fa – che i cambiamenti climatici sono in atto e rappresentano un nuovo fattore di rischio anche per le popolazioni industrialmente avanzate. Esistono delle ragioni etiche per calmierare le emissioni di Co2 laddove le conseguenze riguardano Paesi poveri e regioni lontane. Queste esigenze, che già dovrebbero essere sufficienti di per sé, diventano ancora più pressanti ed evidenti nel momento in cui verifichiamo anche nei nostri territori le conseguenze del cambiamento climatico.