Segnali contraddittori. Alcuni settori funzionano, altri meno: vedi la mancata ripresa pubblicitaria

di Nicola SALVAGNIN

immigrato al lavoro

Se la sensazione comune è che si cominci a intravvedere la luce in fondo al tunnel, non bisogna però dimenticare – in questa risurrezione di ottimismo – che nel tunnel ci siano ancora dentro fino al collo. Se ce lo dimentichiamo, a provvedere a ricordarcelo sono i recenti casi di chiusure aziendali che interessano migliaia di lavoratori.

Le statistiche dicono che la crisi è in frenata, ma a sfrucugliarle bene emerge che c’è una locomotiva che tira, e una che è in panne. Sta funzionando bene il settore industriale più classico, l’automobile; continuano a funzionare bene i settori tipici del made in Italy: la moda, il vino, l’alto artigianato, l’oreficeria, molto agroalimentare.

Purtroppo il retro della medaglia è quello più preoccupante: a perdere pezzi è la manifattura, quei rami industriali che creano e mantengono moltissimi posti di lavoro, da chi sta in fabbrica all’indotto. Sta facendo clamore il caso Whirlpool che, dopo aver assorbito l’italiana Indesit, sta razionalizzando gli stabilimenti in suolo patrio. Il saldo – per ora negativo per 1.350 dipendenti diretti – è quasi tutto a carico del Centro-sud, con Caserta a perdere una delle più importanti aziende del suo territorio.

Ma pure aziende storiche della termomeccanica veneta, come Ferroli e Riello, stanno attraversando un gran brutto momento. E, in definitiva, stanno ora scoppiando tutte quelle situazioni difficili che in qualche modo si erano protratte finora. Perché – nonostante gli 80 euro, gli sgravi Irap, le assunzioni a sconto Inps, il Tfr trasferibile in busta paga, bonus fiscali… -; insomma nonostante un’iniezione di denaro nelle nostre tasche, il mercato domestico non va, non si riprende. E chi lavora in Italia per l’Italia, sta facendo ormai da anni le capriole per sopravvivere.

C’è un settore economico che è lo specchio dello stato di salute di un Paese, il termometro che ne misura il benessere o la febbre: la pubblicità. Quando questa è in ripresa, vuol dire che l’economia è ripartita. Ebbene: stando ai dati pubblicitari continuamente in calo, la febbre è ancora alta ed è meglio non trascurarla, mentre già si sogna a quando la convalescenza sarà finita.

Il fatto è che troppi anni consecutivi di crisi hanno convinto definitivamente gli italiani che i soldi è meglio tenerseli in tasca, piuttosto che spenderli. È vero che l’orizzonte si sta rischiarando, ma la sensazione generale è quella di sentirsi tutti appesi ad un filo. Quasi tutte le famiglie italiane hanno sentito, in questi anni, i rigori della crisi. Quasi tutte, ora, vanno avanti con i piedi di piombo: ci pensano tre volte, prima di cambiare casa o arredamento della stessa.

C’è poi il diverso atteggiamento che le banche stanno tenendo nei confronti di molte aziende medio-grandi, con le quali sono molto esposte: credito finito, ora rientrate o… La Bce ha preteso una colossale operazione di pulizia contabile da parte di moltissimi istituti bancari italiani, che hanno dovuto mettere tra le perdite uno tsunami di crediti difficilmente esigibili. Un bagno di sangue – certe banche sono andate in rosso per miliardi di euro – non più replicabile, altrimenti il rischio è che le attuali decine di migliaia di esuberi del sistema bancario, siano solo l’inizio della fine, e non la fine della crisi.

Quindi si chiedono agli azionisti di quelle industrie largamente finanziate – quasi sempre a carattere familiare, cosa tipica del nostro capitalismo – di metterci del loro. E qui casca l’asino, stante la scarsa voglia di intaccare il proprio patrimonio per ricapitalizzare un’azienda magari decotta.

Serve più che mai, quindi, solidificare il pavimento della ripresa italiana. Perché se le cose cominciano a girare nel verso giusto, le perdite dei posti di lavoro non diventano traumi al buio, ma momenti di transizione verso nuove occupazioni.

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