Le questioni sollevate dalla “manovra”: lavoro, rapporto tra generazioni, tessuto sociale sempre più fragili?
di Nicola SALVAGNIN
Se c’era da salvare l’Italia (così è stata infatti denominata la manovra approntata dal governo Monti), si fa questo e altro, figurarsi. C’era da rastrellare una trentina di miliardi di euro in brevissimo tempo, e i metodi per arrivarci sono sempre i soliti: aumento della benzina, più tasse, un giro di vite sulle pensioni. Le accise sui carburanti sono regolabili nel tempo; le imposte si possono alzare o diminuire (ultimamente in Italia la seconda leva è assai arrugginita, siamo arrivati al massimo del prelievo fiscale di ogni tempo). Ma certe decisioni sulla previdenza rischiano di fotografare per molti anni una situazione molto ambigua.
Lasciamo perdere il pur discutibile congelamento dell’adeguamento inflazionistico per una parte – quella sopra i 1.400 euro – delle pensioni erogate. Inizialmente era più punitivo, ora sicuramente meno. È una decisione ingiusta, più nel metodo che nella logica: andrebbe considerato il reddito complessivo della persona, non il suo assegno pensionistico. Puntiamo, invece, l’attenzione sull’innalzamento dei limiti di accesso alla pensione stessa, limiti che ora sono all’avanguardia nel mondo occidentale. Lo diciamo senza alcuna gioia, è un’avanguardia che nessuno ci invidia.
Nel 1995 – anno della riforma previdenziale decisa da un altro governo “tecnico”, quello di Lamberto Dini – si andava mediamente in pensione a 55 anni. Quel “mediamente” significava che una bella fetta di italiani ci andava ben prima. Si alzarono i limiti: 57 anni. Quindi, nel corso dell’ultimo decennio, tra “scaloni” e “quote”, si è arrivati a minimo 62 anni; a qualsiasi età invece con 4 decenni di contributi.
Quest’estate le manovre governative hanno peggiorato ancora la situazione: equiparazione tra uomini e donne (verrebbe da dire: tra nonni e nonne); “finestre” sempre più lontane; tentativi di cancellare le pensioni di anzianità, quelle che si maturano sommando un minimo di età (62 anni) con un minimo di contributi (35 anni). E altro ancora. Già così, si erano in pratica spostati per tutti i limiti minimi di pensionamento. Non meno di 60 anni, spesso attorno ai 65 anni.
Infine c’è stato da salvare l’Italia. S’è detto che non lo dovessero fare i “soliti noti” (lavoratori e pensionati). S’è omesso di dire la frase intera: “Non lo devono fare solo i soliti noti, ma anche loro balleranno questo valzer”. Sulle pensioni, le decisioni prese dal ministro del Welfare Elsa Fornero hanno fatto piangere pure lei nell’annunciarle. Il giorno dopo, quando sono state comprese appieno, a farle compagnia sono stati milioni di italiani. In particolare quelli della classe 1952: per effetto delle novità in materia, da pochi mesi il traguardo s’è spostato di sei anni. Almeno 72 mesi in più di lavoro, alla vigilia dei 60 anni di età. Ma se loro piangono, i quaranta-cinquantenni certo non ridono. Addio pensioni di anzianità, di fatto dal 2018; futura età media di pensionamento delle donne: 66 anni; degli uomini: 67-69 anni. Uno spiffero d’aria e si arriva ai 70.
Ricapitolando. C’è chi è andato in pensione – non nel Neolitico – a 52-53 anni; chi con 15 anni di contributi versati; e chi ci andrà a 70 con una quarantina d’anni di lavoro alle spalle come minimo. Tutto qui. Non è questione di giustizia (lo sarebbe) o di equità (pure). Né si valuta la diatriba tra chi ha mangiato e chi alla fine pagherà il conto. In fondo si tratta di un regolamento di conti tra padri e figli. La vera questione da esaminare è quella occupazionale e sociologica. Il cosiddetto ricambio lavorativo, nei prossimi quindici-vent’anni, sarà ridotto ai minimi termini. Già oggi non è che sia così semplice, per un giovane, trovare occupazione…
Giovani che non piangono, né si disperano per queste manovre semplicemente perché per loro, di fatto, il sistema previdenziale così come l’abbiamo conosciuto nel Novecento, è stato abolito. L’estensione totale del sistema contributivo (tot versamenti, tot pensione) porta al superamento dei limiti di età, delle mensilità di contributi versati: tra trent’anni una richiesta d’informazioni all’ente previdenziale farà conoscere seduta stante all’interessato quale sarà il suo assegno pensionistico a una data età. Se ridicolo, avanti a lavorare anche fino a 90 anni. Se giudicato sufficiente per la propria situazione personale, se ne chiederà l’erogazione. Spariranno pure i nonni, e quel welfare familiare che permetteva ai giovani di avere qualcuno a fianco soprattutto nella cura dei figli. Nonna non c’è, è al lavoro. Nonno pure. Rivalutiamo i bisnonni?
Ma la preoccupazione più grave è un’altra, tale da cambiare un intero modo di affrontare la vita. Questa è stata una riforma talmente estrema che, in verità, lascia scontenti pure gli industriali. Che si troveranno dipendenti ultrasessantenni a carico: cioè poco aggiornati, meno flessibili, meno produttivi, soprattutto più cari perché certo più costosi di un giovane tirocinante. C’è da scommettere che, nei fatti, un ultra-cinquantacinquenne diventerà un peso, da togliere in qualsiasi modo. Da licenziare, se sarà più facile farlo. Finora lo sventurato aveva il problema di tirare avanti quei 3-4 anni che lo separavano dalla pensione. Ma quando gli anni mancanti saranno 15, e nessuno più ti vorrà assumere “perché sei vecchio, perché costi?”.
Andate a vedere com’è l’America in recessione di oggi, per capire come sarà l’Italia di domani. Quindi se qualche modifica avverrà nei prossimi giorni, sarà benvenuta.