I tempi degli sprechi incontrollati sono passati per sempre. Ma si dovrà anche cercare di adeguare la funzionalità della pubblica amministrazione agli standard europei
di Nicola SALVAGNIN
Il compianto ministro dell’Economia Tommaso Padoa Schioppa già cinque anni fa si propose di rivedere il sistema della spesa pubblica italiana, sospettando – come tutti i suoi connazionali – che lo Stato spenda troppo e male. Un processo che fa tendenza qualificare in inglese (spending review) perché proprio nel Regno Unito è stato adottato seriamente nel decennio scorso, con un’attenta valutazione sia di quanto lo Stato spende, sia di come lo fa. Qui ci accontentiamo del quanto, e acceleriamo di molto i tempi per un’attenta valutazione, consci che il progetto di Padoa Schioppa fallì dopo poco più di un anno: il governo Prodi cadde, seguì l’esecutivo Berlusconi che cassò tutto in un amen. Salvo ricorrere, un paio d’anni più tardi, ai cosiddetti tagli lineari.
Ora il governo Monti è tornato sulla strada della spending review. Ha dato incarico al manager Enrico Bondi di spulciare le varie fonti di spesa senza perdercisi dentro più di tanto. Dopo pochi mesi Bondi – il risanatore di Parmalat – ha emesso il suo verdetto: sostanzialmente ha detto che una buona parte della spesa pubblica non ha alcun senso, quindi si può sforbiciare in lungo e in largo, con la possibilità di recuperare addirittura alcune decine di miliardi di euro in modo strutturale.
Ne servono circa 7 per evitare una misura fiscale che sarebbe la mazzata finale all’economia italiana: l’aumento dell’Iva dal 21 al 23%. E quindi Monti è partito lancia in resta. Anzitutto nel metodo: non ha contrattato i tagli con nessuno, ha comunicato ai sindacati che li farà. Punto. E saranno: revisione della spesa sanitaria per l’acquisto di beni e servizi (il cui costo scandalosamente varia – e di molto – da Ulss a Ulss); prolungato stop alle assunzioni nel pubblico impiego, con taglio di 10 mila posti in 4 mesi soprattutto tra le fila di dirigenti e consulenti; liofilizzazione di alcune voci retributive per i dipendenti pubblici (mensa, ferie, permessi); chiusura degli ospedali con meno di 120 posti letto (ben 216 strutture) e diminuzione di 30 mila posti letto negli ospedali più grandi; taglio dei piccoli tribunali e di alcune Province. E altro ancora.
Lo ripetiamo da tempo: tra il dire e il fare, soprattutto quando si toglie, in Italia c’è sempre di mezzo un oceano. E parliamoci chiaro: l’insieme di questi tagli dovrebbe mandare a spasso parecchi italiani, a fondo diverse piccole e medie aziende che lavorano con la pubblica amministrazione, tagliare i guadagni di molti collaboratori della stessa. Non sarà una passeggiata di salute.
Rimane la grande questione della pubblica amministrazione italiana. Che non è di per sé faraonica rispetto alle dimensioni del Paese, ma è a volte inutile, a volte superata, a volte inefficiente, troppo spesso sprecona. L’età media è alta, i livelli professionali in ribasso in quanto l’aggiornamento delle capacità è quasi sempre una chimera, l’informatizzazione ha reso obsolete figure lavorative e funzioni che non hanno più ragione di esistere se non, appunto, quella di esistere.
Qualcosa – forse anche molto – va fatto in questo senso, perché la fiscalità generale è già al massimo e il resto degli italiani non ha alcuna intenzione di pagare di più, per mantenere questa pubblica amministrazione. Quindi la spesa pubblica va revisionata perché i tempi degli sprechi incontrollati sono passati per sempre. Ma prima o poi qualcuno si dovrà pur decidere di far (ben) funzionare pure la macchina pubblica, per portarla verso standard europei e non più mediorientali.
Vedremo come si comporterà la politica, che sta già dando i suoi soliti pessimi segnali: manda avanti Monti a tagliare, ma dietro già mugugna, fa lobby, difende questo o quello, cerca di smussare se non di cassare. È proprio questo agire della politica italiana che sta vanificando, a una ad una, quasi tutte le riforme approntate dall’esecutivo, e che fa dire ai tedeschi: voi non cambiate mai.