Il cappuccino monsignor Joseph Alessandro, vescovo coadiutore: «Qui non esistono conflitti tra le religioni»
a cura di Francesco ROSSI
Non è una questione religiosa, ma politica. Dopo l’attentato alle due chiese a Garissa, in Kenya, il cui bilancio è stato di 17 morti e una cinquantina di feriti, dai leader politici e religiosi del Paese è giunta una corale condanna dell’accaduto.
«La situazione ora mi pare calma, anche se non si può negare che alcuni siano rimasti scioccati per l’accaduto – dice il cappuccino monsignor Joseph Alessandro, dal 29 giugno vescovo coadiutore della diocesi di Garissa, nella quale era già vicario generale -. Girando per le strade proprio stamattina non ho notato nulla di particolare. Lunedì sono giunti a Garissa il primo ministro e il vicepresidente del Kenya: hanno visitato le due chiese, hanno incontrato la gente e pure diversi sacerdoti. Martedì, poi, il governo ha convocato i leader religiosi musulmani, cristiani delle diverse denominazioni protestanti e cattolici; da loro è giunta un’unanime condanna dell’attentato».
Il vescovo di Garissa, monsignor Paul Darmanin, lunedì ha attribuito l’accaduto a una questione politica e non religiosa, «per mettere in imbarazzo il governo di Nairobi per quello che l’esercito keniano sta facendo in Somalia contro Al-Shabaab». Confermate questa tesi?
Sì, non è una questione religiosa. Sebbene l’attentato non sia stato rivendicato, è attribuibile al gruppo somalo di Al-Shabaab, come rappresaglia per le operazioni dell’esercito keniota in Somalia. Ci sono stati altri attentati, negli ultimi mesi, dei quali nessuno si è assunto la responsabilità, ma che sembrano avere la medesima matrice; queste chiese, probabilmente, sono state un bersaglio perché facili da colpire.
Il bilancio delle vittime è immutato?
Sì, i morti sono 17, tutti nella chiesa protestante, dove hanno sparato contro la gente in fuga dopo aver ucciso i due poliziotti di guardia. Nella cattedrale cattolica, invece, sono state lanciate due granate, delle quali una è esplosa ferendo alcune persone.
Le chiese cristiane in Kenya sono sorvegliate dai poliziotti?
Sì, ogni domenica durante le funzioni religiose, per garantire la sicurezza e l’incolumità dei fedeli.
Parlava di diversi attentati nell’ultimo periodo… Sono presi di mira i cristiani?
No, non sono violenze dirette ai cristiani in quanto tali, ma a quanti non sono del posto. Qui la stragrande maggioranza appartiene alla tribù somala, ma poi vi sono diversi – insegnanti, medici, uomini d’affari, ecc – giunti per lavoro da altre parti del Kenya, che vengono considerati stranieri da questi terroristi. Nei mesi scorsi ci sono stati episodi di violenza a Nairobi, a Mombasa; a Garissa cinque persone sono rimaste uccise per un’esplosione in un bar nella notte di Capodanno. Le aree di frontiera con la Somalia sono le più esposte ad attentati di questo genere, anche se adesso sono stati rafforzati i controlli lungo i confini.
I somali che vivono in Kenya come reagiscono a questa situazione?
Anche i capi religiosi somali hanno condannato l’accaduto. Tra l’altro uno dei due poliziotti uccisi all’ingresso della chiesa protestante era somalo.
C’è chi ha accostato quanto accaduto in Kenya con le stragi di cristiani che avvengono in Nigeria. A suo parere vi è qualche collegamento?
Non credo. Anche le autorità hanno negato che la situazione sia paragonabile a quella della Nigeria. Qui non esistono conflitti tra le religioni.