Fissati livelli minimi di assistenza a cui devono attenersi Governo, Regioni ed enti locali. Le iniziative di accoglienza raccontate dal mensile di strada “Scarp de’ tenis”
di Gianni BORSA
Senza una casa, lontani – forse per sempre – dagli affetti familiari, con alle spalle storie di solitudine e sofferenza, inverni gelidi sulle panchine delle nostre città. Eppure c’è speranza. Una mano tesa, quattro mura che riscaldano, il sorriso di un volontario che accoglie. Sono cinquantamila le persone senza dimora che vivono in Italia, molte delle quali seguite dalla Caritas. Per loro sono stati fissati, per la prima volta, dei livelli minimi di assistenza da erogare: è il senso delle “Linee di indirizzo per il contrasto alla grave emarginazione adulta in Italia”, documento che “stabilisce criteri e progettualità per lo stanziamento delle risorse nel settore della homelessness”. Vi si devono attenere Governo, Regioni ed enti locali. E nascono, al contempo, concrete esperienze di aiuto sul territorio nazionale.
Sperimentare modelli innovativi
Il tema dei senzatetto è al centro del numero di febbraio di Scarp de’ tenis, il mensile di strada promosso da Caritas ambrosiana e sostenuto da Caritas italiana, che contiene un ampio dossier dal titolo “Uno, nessuno, cinquantamila”.
Cristina Avonto, presidente Fio.Psd (Federazione italiana organizzazioni persone senza dimora), spiega alla testata il senso del documento per il contrasto all’emarginazione adulta, steso in collaborazione con il Ministero delle politiche sociali e le 12 Città metropolitane. A livello di contenuto l’aspetto più importante del documento è l’invito a sperimentare modelli innovativi. Su tutti, quello dell’housing first, che prevede l’accesso dei senza dimora ad appartamenti indipendenti. «Se con questo sistema, a New York, sono riusciti a ridurre drasticamente il numero delle persone che dormono per strada, credo sia possibile applicarlo anche in Italia – sostiene Avonto -. Non dico di chiudere i dormitori, perché sarebbe da irresponsabili. Però dobbiamo far crescere modelli nuovi per concretizzare reali percorsi di uscita dalla povertà». Ed ecco alcuni esempi: a Bologna gli “Amici di Piazza grande”, l’unità di strada della Caritas di Vicenza e quella dell’Auxilium diocesano di Genova oppure l’housing first di Ragusa.
A Padova “La strada verso casa”
Sperimentazioni e “buone pratiche” del resto non mancano. Scarp de’ tenis ne racconta alcune. È il caso di Padova, dove la Caritas stava lavorando al primo progetto di housing first, quando una parrocchia del centro città si fa viva mettendo a disposizione due appartamenti in comodato d’uso. «Ci è sembrato un segno – racconta Sara Ferrari -. Come Caritas ne avevamo altri due, e siamo partiti con il progetto “La strada verso casa”». Quello che si sta sperimentando a Padova «è una sorta di ibrido tra l’accoglienza tradizionale e il modello puro di housing first nordeuropeo», che prevede una sola persona per casa. «Da noi non sarebbe stato sostenibile – osserva Ferrari – perché le persone non hanno un reddito di cittadinanza e chi non ha un lavoro non può contribuire alle spese. Per questo non restano per un tempo indeterminato ma per circa un anno». Così dal 2013 sono state accolte una ventina di persone, «di cui otto camminano già con le proprie gambe».
C’è ad esempio il caso di Alessandro (il cognome resta celato per ovvie ragioni): «Era un artigiano – racconta il giornale di strada -, ma a causa della crisi ha perso il lavoro, la casa, tutto. E arriva pure una condanna a dodici mesi in carcere», dove scopre di soffrire di una grave forma di diabete che richiedeva molti esami e cure continue. «Finché è stato “dentro” ha potuto curarsi, quando è uscito, senza casa, non è più riuscito a essere costante nelle cure: e come si fa in strada? Aveva iniziato a fare dentro e fuori dall’ospedale, peggiorando sempre più». Il dormitorio dove si riparava ogni tanto lo segnala alla Caritas. «Gli abbiamo dato una delle nostre case – spiegano gli operatori Caritas – e con uno spazio suo è riuscito a curarsi fisicamente e psicologicamente. Dopo otto mesi ha trovato un contratto a tempo indeterminato e ora vive autonomamente».
Nel centro di Napoli c’è “Jesce Juorno”
A Napoli c’è invece “Jesce Juorno”, servizio per gli ultimi della città che deve il suo titolo a una canzone di Pino Daniele. Si tratta in realtà di una invocazione dialettale che propizia la speranza di un giorno migliore. “Jesce Juorno” è, di fatto, uno spazio d’accoglienza diurna, attivo nel centro del capoluogo campano. «Offre ogni giorno un’opportunità: c’è lo sportello di ascolto, mediazione familiare, counseling, e quello di consulenza legale e tutela dei diritti; ci sono – spiega la rivista di strada – i laboratori di arte e manualità, gli spazi per le attività ricreative, i percorsi di pre-qualificazione professionale, un internet point, una biblioteca».
Quando si esce dai centri di accoglienza notturna invece di doversi organizzare in qualche modo il tempo, sia che diluvi, faccia freddo o bruci il solleone, si può scegliere di far parte di “Jesce Juorno”, realizzato dalla cooperativa sociale “La Locomotiva” con il sostegno del Comune di Napoli. Non è solo un riparo: qui si offre alle persone senza dimora l’opportunità di giornate in compagnia, con attività interessanti, alle quali ogni persona potrà partecipare orientato dall’équipe educativa che ne valuterà le attitudini, le risorse e le capacità dimenticate e sepolte sotto i rovesci della vita in strada.