Monitoraggio sull’impatto sociale del Covid: le principali vittime sono quanti già vivevano una situazione di disagio, ma sono state colpite anche persone che prima non erano in difficoltà e che ora si trovano nella condizione di dover chiedere aiuto

di Walter NANNI
Responsabile Ufficio studi Caritas italiana

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Anche dopo i 55 giorni di lockdown che hanno coinvolto tutto il Paese, segnando un prima e un dopo nella storia sociale degli italiani, gli effetti della pandemia di Covid-19 hanno continuato a colpire duramente il tessuto umano e produttivo, evidenziando una difficile ripartenza.

Anche se tutti abbiamo subìto in modo diverso qualche tipo di conseguenza, più o meno grave, dalla inaspettata situazione di emergenza, i più colpiti sono stati ancora una volta coloro che già prima della pandemia vivevano una situazione di disagio sociale e di deprivazione economica. Coloro che più si trovavano sprovvisti di risorse umane e relazionali, di beni materiali, di un ricovero adeguato, di assistenza sanitaria, hanno conosciuto un peggioramento ulteriore della propria condizione. Allo stesso tempo, ci sono state delle persone che non vivevano in precedenza particolari situazioni di disagio, ma che sono state ugualmente colpite dagli effetti socio-economici della pandemia.

In questo senso, la cosiddetta diffusione “democratica” della malattia ha determinato la riduzione di quelle barriere di riservatezza che solitamente inibiscono il ricorso ai servizi della Caritas: si è registrato infatti in tutto il Paese, sia a Nord che a Sud, un aumento di “nuovi poveri”, ossia di persone che non si erano mai rivolte alla Caritas in passato e che si sono trovate nella condizione di dover richiedere una qualche forma di aiuto. In altre parole, il fatto che tutti siamo stati in difficoltà, ha favorito l’emersione di quelle situazioni di povertà sommersa che in altre condizioni non sarebbero venute a galla.

Difficile dire quante di queste persone e famiglie persisteranno in futuro nella condizione di disagio e di vulnerabilità sociale: i dati dei prossimi mesi saranno in grado di verificare tale andamento, e in questo senso le antenne di Caritas, diffuse capillarmente sul territorio, saranno in grado di confermare in modo tempestivo questo tipo di tendenza. In linea generale, una quota che sfiora il trenta per cento delle Caritas sottolinea la presenza di qualche segnale positivo, misurabile in base al calo di richieste e domande di aiuto, subito dopo la fine del lockdown.

Questi dati provegono dal Secondo monitoraggio sull’impatto sociale del Covid, condotto da Caritas italiana nel mese di giugno 2020, a cui ha partecipato un nutrito campione di 169 Caritas diocesane, pari al 77,5% del totale delle Caritas in Italia.

Sempre dallo stesso monitoraggio provengono altri dati interessanti, in riferimento a diversi aspetti di impatto sociale del lockdown. In soli tre mesi, la Caritas ha aiutato, in diverse forme, 445.585 persone (in media, 2.990 utenti per diocesi).

Si tratta di un volume di persone già di per sé molto significativo anche se ancora sottostimato in quanto riferito a sole 149 diocesi. Allo stesso tempo le persone che con maggiore frequenza si sono rivolte alla Caritas sono comunque quelle che già prima del virus evidenziavano aspetti di vulnerabilità.

Sul totale dei beneficiari Caritas del periodo marzo-maggio 2020, il 38,4% sono stranieri e il restante 61,6% sono italiani.

Anche tra i 129.434 “nuovi poveri” che si sono rivolti per la prima volta alla Caritas nello stesso periodo, troviamo un numero molto significativo di italiani, che si sono trovati in seria difficoltà socio-assistenziale per la prima volta nella loro vita.

Anche per quanto riguarda i dati sul profilo lavorativo e professionale, gli utenti del periodo Covid evidenziano una forte debolezza pregressa: secondo quanto riferito dal 92,3% delle Caritas diocesane, le persone che si sono rivolte alla Caritas nel periodo della pandemia erano soprattutto disoccupate (in cerca di nuova occupazione) o con impiego irregolare fermo a causa delle restrizioni imposte dal lockdown. Seguono i lavoratori dipendenti in attesa della cassa integrazione ordinaria o cassa integrazione in deroga, segnalati dall’87,6% delle Caritas, e i lavoratori precari o intermittenti che, al momento della presa in carico, non godevano di ammortizzatori sociali (81,7%).

Affiora dai dati delle Caritas diocesane la presenza di un’Italia dell’economia nera e grigia, sfiorata solo tangenzialmente dalle misure di tutela messe in campo dall’amministrazione pubblica, e che nel prossimo futuro, con ogni probabilità, continuerà a manifestare forti livelli di bisogno e di domanda sociale.

Andando nel profondo delle pieghe del bisogno sociale, si evidenzia la presenza di fenomeni che, almeno in parte, si discostano dal profilo medio di bisogno rilevati in tempi pre-covid. Se ai primi posti nei fenomeni segnalati in aumento figurano problemi di tradizionale povertà economica come la perdita del lavoro e di fonti di reddito o la difficoltà nel pagamento di affitto o mutuo (segnalati come in aumento dal 95,9 all’88,8% delle Caritas diocesane), accanto a tali ambiti di bisogno appaiono fenomeni meno frequenti nei centri di ascolto, come il “disagio psicologico-relazionale” (86,4%), le “difficoltà scolastiche nei compiti, nel seguire le lezioni, ecc” (82,8%), la “solitudine” (82,2%) e la “depressione” (77,5%). Ma quello che maggiormente colpisce l’attenzione  è il fenomeno della “rinuncia o il rinvio di cure e assistenza sanitaria”, determinato dal blocco dell’assistenza specialistica ordinaria e di prevenzione, segnalato dal 74,6% delle Caritas diocesane, e che determinerà in futuro un effetto di onda lunga sul piano del carico assistenziale e del profilo epidemiologico del nostro paese.

A fronte di uno spettro di fenomeni così vasto e inedito, le Caritas hanno evidenziato una grande capacità di adattamento, mettendo in atto risposte innovative, mai percorse in precedenza: servizi di ascolto e accompagnamento telefonico; ascolto in luoghi all’aperto; fornitura pasti da asporto e consegne a domicilio; fornitura di dispositivi di protezione individuale e di igienizzanti; attività di supporto alle famiglie per la didattica a distanza (fornitura di pc, tablet, ecc.); supporto allo smart working per famiglie, anche tramite la fornitura di pc e strumenti informatici; aiuto telefonico per lo studio/doposcuola fatti al telefono; accoglienza di infermieri e medici; messa a disposizione di alloggi per i periodi di quarantena e isolamento. E la lista potrebbe continuare a lungo.

Ma un elemento di grande importanza risiede nel fatto che – accanto al contributo che la Cei ha messo a disposizione dai fondi dell’otto per mille – sono fiorite moltissime iniziative di solidarietà, anche con la messa a disposizione di beni di prima necessità e che gran parte di questi servizi sono stati attivati in forma coordinata e sinergica con altri attori: con gli enti pubblici locali (91,7% delle Caritas), con le parrocchie (89,3%), con enti non ecclesiali (85,8%), con la protezione civile (76,9%), con altri enti di natura ecclesiale (79,3%).

Se è possibile evidenziare almeno una lezione appresa dall’emergenza del Covid, questa si individua proprio nella capacità di lavorare insieme ad altri, nella convinzione che, in un mondo complesso come quello che ci è stato lasciato dopo il disastro, da soli non si va da nessuna parte e che uno sforzo di collaborazione consente di raggiungere risultati migliori e certamente inaspettati.

 

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