Scomparso il 20 giugno a 78 anni, negli anni Sessanta fu l’artista della Grande Inter di Moratti ed Herrera. I funerali martedì 23 giugno in Sant’Ambrogio

di Mauro COLOMBO

Corso
Mario Corso

I compagni della Grande Inter sostenevano che quando lui era in giornata di vena la vittoria era assicurata. Non lo dicevano di Suarez o Picchi, di Facchetti o Mazzola; lo affermavano di lui, Mario Corso da San Michele Extra, che all’Inter c’era arrivato appena diciassettenne, nel 1958, e che è morto sabato 20 giugno a 78 anni. Martedì 23, alle 11, i funerali nella Basilica di Sant’Ambrogio a MIlano.

Nella fuoriserie costruita da Angelo Moratti, Italo Allodi ed Helenio Herrera, Corso non era una componente di base, ma un fantastico optional, di quelli che, quando la macchina è già a pieni giri, danno il tocco in più. Quello decisivo. Quello che fa vincere le partite, appunto. Come nello spareggio a Madrid contro l’Independiente per la Coppa Intercontinentale 1964: esterno sinistro nell’angolino basso. O in una serata di maggio a San Siro contro il Liverpool, nel ritorno della semifinale della Coppa dei Campioni 1965: sapiente parabola all’incrocio dei pali su punizione dal limite, a dare il “la” a una delle più esaltanti rimonte della storia nerazzurra. O in un derby a San Siro della primavera 1971, quando l’Inter aveva messo la freccia per il clamoroso sorpasso-scudetto ai danni dei “cugini” rossoneri: altra punizione, ancora più beffarda, rasoterra a fil di palo.

Non era il prototipo dell’atleta, Corso. Il corpo per lui era semplicemente l’anello di trasmissione di ciò che la testa dettava ai piedi. Anzi, al piede, perché ne usava uno solo. Il destro, dicevano, gli serviva solo per salire sul tram. Ma col sinistro ricamava: dribbling irridenti, tocchi spiazzanti, passaggi illuminanti. E poi il suo marchio di fabbrica, la “foglia morta”: nei calci da fermo, dove quasi tutti ricorrevano alla potenza, lui preferiva una morbida battuta d’interno, con la palla che si alzava a scavalcare la barriera, sembrava proseguire la sua corsa verso il cielo e poi, improvvisamente, quasi si fosse sgonfiata, declinava delicatamente (come una foglia morta, appunto) a gonfiare la rete, col portiere avversario stregato da tanta maestria.

Corso era un giocatore difficilmente adattabile al meccanismo di una squadra odierna, dove gli schemi spesso prevalgono sulla fantasia. Nato come ala sinistra pura, si affermò come fantasista libero di seguire il suo estro e chiuse come regista di centrocampo. Dicevano che in campo prediligeva muoversi nelle zone d’ombra, per non sudare. Ma è una leggenda metropolitana. Più vicini alla verità erano quanti sostenevano che, da raffinato artista, intervenisse a dare pennellate di colore solo quando il quadro d’insieme gli risultava significativo e meritevole d’attenzione. Quel che è certo è che, più che correre, trotterellava sornione, con quei calzettoni arrotolati alla caviglia a sfidare i calcioni degli avversari, che però in genere arrivavano quando lui se ne era già andato.

Con simili premesse, logico che risultasse più gradito ai compagni che agli allenatori. Il cattivo rapporto con i vari Ct gli precluse, per esempio, una più assidua frequentazione della Nazionale (celebre lo sfogo pubblico in occasione di un’amichevole contro la Cecoslovacchia a San Siro, che gli costò la convocazione ai Mondiali del 1962). E pensare che proprio alcune sue prodezze in maglia azzurra avevano indotto il selezionatore israeliano ad affibbiargli l’appellativo con cui sarebbe passato alla storia: «il piede sinistro di Dio».

Ma anche all’Inter non ebbe vita facile. Herrera lo considerava inadeguato al suo «taca la bala» e ogni anno, in sede di mercato, metteva il suo nome nella lista dei cedibili; e ogni volta il presidente Moratti, che per Corso stravedeva, su quel nome tirava una riga. Ma anche l’altro Herrera, Heriberto, chiamato a gestire la fase terminale della Grande Inter e ancora più maniacale del suo omonimo nella visione fisico-atletica del calcio, ritenne di poter fare a meno di lui, tanto da chiederne la cessione nel mercato invernale del 1971: invece fu l’allenatore a essere esonerato e Corso, ringalluzzito, insieme agli altri “senatori” fu l’artefice della già ricordata rimonta tricolore sul Milan. Quando poi Helenio tornò all’Inter nel 1973, lo rimise in discussione: non c’era più Moratti a fare da nume tutelare e dopo 16 anni, quattro scudetti, due Coppe dei Campioni e due Coppe Intercontinentali, Corso dovette prendere la strada della Riviera e vestire la maglia del Genoa per gli ultimi scampoli di carriera.

Ma il legame con l’Inter non si è mai spezzato. Ci tornò come tecnico delle giovanili, conseguendo risultati lusinghieri, e anche come allenatore della prima squadra, in una fase d’emergenza. Poi osservatore, talent scout, consigliere personale di Massimo Moratti, di cui era amico dai tempi delle partitelle nella villa di famiglia a Imbersago. Negli ultimi anni si propose anche in veste di opinionista, esponendo le sue sapienti argomentazioni tecnico-tattiche con la pacatezza che lo caratterizzava e con bonaria ironia, sempre espressa a fil di voce. Senza mai montare in cattedra, lui che pure ne avrebbe avuto titolo, a testimonianza che la prima qualità dei grandi è l’umiltà.

 

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