Un ricordo del sacerdote ambrosiano che, insieme ad altri religiosi e laici cattolici, nei giorni terribili della seconda guerra mondiale si impegnò nel salvataggio di ebrei, prigionieri e ricercati, collaborando in prima persona con la Resistenza
di Luca
Frigerio
Per molti cattolici, chierici e laici, ribellarsi alla disumanità, alla violenza e alla ferocia del nazifascismo è stato come un atto spontaneo, connaturato alla propria professione di fede: l’attuazione dell’esortazione evangelica a stare dalla parte di chi soffre e di chi è perseguitato, la concretezza cristiana del “farsi prossimo”. Ribelli, sì, ma per amore.
Don Aurelio Giussani (1915-1977) è stato uno di questi ribelli. Nato a Baruccana di Seveso, ordinato dal cardinal Schuster nel 1939, don Aurelio era un giovane insegnante di lettere nel Collegio arcivescovile San Carlo a Milano. All’indomani dell’armistizio dell’8 settembre 1943 la sua preoccupazione più pressante era superare l’esame di greco in Cattolica. Ed è proprio mentre era alle prese con le commedie di Aristofane che lo chiama l’amico e collega don Andrea Ghetti, che insieme a un altro amico comune, don Enrico Bigatti (allora coadiutore a Crescenzago), gli chiede di dare loro un aiuto a nascondere alcuni prigionieri di guerra, inglesi e greci, e diversi soldati italiani che, sfuggiti all’arresto da parte dei tedeschi, rischiano di essere deportati in Germania.
Vinte le comprensibili perplessità iniziali (è lui stesso a raccontarlo nel suo Diario clandestino, pubblicato postumo e oggi consultabile sul sito www.aquilerandagie.it ), don Aurelio mette tutte le sue energie e tutto il suo ingegno al servizio di questa impresa di salvataggio di ebrei e di ricercati, che egli definisce semplicemente «opera di carità». E per le continue richieste e necessità, «quasi senza accorgerci – sono sempre parole del sacerdote ambrosiano – ci troviamo ad aver costituito una vera organizzazione di soccorso, che allarga sempre più le sue forme di assistenza e si perfeziona nei suoi mezzi», che viene chiamata “Oscar”, acronimo di «Organizzazione soccorsi cattolici antifascisti», composta da giovani e coraggiosi membri dello scautismo, della Fuci e dell’Azione cattolica: «un’ancora di salvezza per chi è disperato».
Il Collegio San Carlo a Milano diventa ben presto il centro di raccolta a cui arrivano «le più lontane e strane invocazioni di soccorso, portate da numerose anime generose»: qui si realizzano documenti falsi di ogni specie sotto il controllo di Giussani («ho quasi un’officina per timbri di numerose città, con carte filigranate ed intestate alle più diverse e delicate opere…», annota nel suo diario), che deve gestire una fitta rete di collaboratori e di fornitori, tra gravosi problemi economici e, soprattutto, con il rischio di essere continuamente scoperti e denunciati.
All’inizio è lo stesso don Aurelio ad accompagnare perseguitati e rifugiati fino al confine con la Svizzera, «travestito nelle forme più varie, secondo le circostanze», facendo la spola tra Milano e Varese, dove nel frattempo è stato trasferito insieme ai suoi studenti, sfollati per i bombardamenti aerei, e dove conosce altri eroici sacerdoti (come don Natale Motta e monsignor Carlo Sonzini). Nelle radure di Rodero, Saltrio, Clivio, ma anche del luinese o sul versante del Monte Generoso, si ritrova spesso a strisciare nel fango dei fossi e tra i rovi delle siepi alla testa di chi deve fuggire, con sulle spalle pesanti bagagli o dei bambini, sorreggendo i più anziani. Non si tratta certo di scampagnate, e il pericolo di essere intercettati e fermati dai fascisti è sempre presente, così come il rischio di essere traditi e denunciati (soprattutto per intascare le laute “ricompense”): e infatti in alcuni casi quei “viaggi della speranza” finiscono in tragedia, con vittime e arresti, interrogatori e sevizie.
In quei mesi, dunque, centinaia di persone, tra ebrei e renitenti, militari alleati ed esponenti antifascisti, vengono aiutate a espatriare clandestinamente grazie alla rete dell’Oscar. A volte si fa ricorso a stratagemmi degni di un romanzo, come nel caso di un bambino ebreo di 4 anni, che i nazisti avevano già destinato ai lager e che invece viene prelevato in modo rocambolesco dall’ospedale varesino dov’era ricoverato e quindi nascosto fino alla fine della guerra (con i parenti sopravvissuti si trasferirà poi in Australia).
In queste azioni Giussani viene in contatto con i nuclei della Resistenza, in particolare quelli di ispirazione cattolica come le “Fiamme verdi”, e si adopera attivamente per diffondere il giornale clandestino Il ribelle, insieme a Teresio Olivelli e a Carlo Bianchi, che pagheranno con la vita il loro amore per la libertà. Quando lui stesso è ormai braccato dai nazifascisti, don Aurelio passa il testimone a don Giovanni Barbareschi e si dà alla macchia, trasferendosi dall’ottobre del 1944 nell’Appennino emiliano, dove assicura l’assistenza religiosa alle formazioni partigiane della zona, imponendosi per il suo coraggio e il suo spirito di iniziativa, a tutti noto con il nome di battaglia di “padre Carlo da Milano”. Ma questa è una storia talmente intensa che dovrà essere raccontata in un’apposita occasione.